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Nov 7, 2012 - Curiosando in Rete, Ecologia, Economia, Fonti energetiche alternative, tecnologia    Commenti disabilitati su Il raggio che dà energia. Gratis

Il raggio che dà energia. Gratis

Marconi ideò un raggio che fermava i mezzi a motore.
Mussolini lo voleva, il Vaticano lo bloccò.
Da quelle ricerche gli scienziati crearono l’alternativa a petrolio e nucleare.
Nel 1999 l’invenzione stava per essere messa sul mercato,

ma poi tutto fu insabbiato


L’energia pulita tanto auspicata dal presidente Obama dopo il disastro ambientale del Golfo del Messico forse esiste già da un pezzo, ma qualcuno la tiene nascosta per inconfessabili interessi economici. Ma non solo. Negli anni Settanta, infatti, un gruppo di scienziati italiani ne avrebbe scoperto il segreto, ma questa nuova e stupefacente tecnologia, che di fatto cambierebbe l’economia mondiale archiviando per sempre i rischi del petrolio e del nucleare, sarebbe stata volutamente occultata nella cassaforte di una misteriosa fondazione religiosa con sede nel Liechtenstein, dove si troverebbe tuttora. Sembra davvero la trama di un giallo internazionale l’incredibile storia che si nasconde dietro quella che, senza alcun dubbio, si potrebbe definire la scoperta epocale per eccellenza, e cioè la produzione di energia pulita senza alcuna emissione di radiazioni dannose.

In altre parole, la realizzazione di un macchinario in grado di dissolvere la materia, intendendo con questa definizione qualunque tipo di sostanza fisica, producendo solo ed esclusivamente calore.

Una scoperta per caso
Come ogni giallo che si rispetti, l’intricata vicenda che si nasconde dietro la genesi di questa scoperta è stata svelata quasi per caso. Lo ha fatto un imprenditore genovese che una decina d’anni fa si è trovato ad avere rapporti di affari con la fondazione che nasconde e gestisce il segreto di quello che, per semplicità, chiameremo «il raggio della morte». E sì, perché la storia che stiamo per svelare nasce proprio da quello che, durante il fascismo, fu il mito per eccellenza: l’arma segreta che avrebbe rivoluzionato il corso della seconda guerra mondiale. Sembrava soltanto una fantasia, ma non lo era. In quegli anni si diceva che persino Guglielmo Marconi stesse lavorando alla realizzazione del «raggio della morte». La cosa era solo parzialmente vera. Secondo quanto Mussolini disse al giornalista Ivanoe Fossati durante una delle sue ultime interviste, Marconi inventò un apparecchio che emetteva un raggio elettromagnetico in grado di bloccare qualunque motore dotato di impianto elettrico. Tale raggio, inoltre, mandava in corto circuito l’impianto stesso, provocandone l’incendio. Lo scienziato dette una dimostrazione, alla presenza del duce del fascismo, ad Acilia, sulla strada di Ostia, quando bloccò auto e camion che transitavano sulla strada. A Orbetello, invece, riuscì a incendiare due aerei che si trovavano ad oltre due chilometri di distanza. Tuttavia, dice sempre Mussolini, Marconi si fece prendere dagli scrupoli religiosi. Non voleva essere ricordato dai posteri come colui che aveva provocato la morte di migliaia di persone, bensì solo come l’inventore della radio. Per cui si confidò con Papa Pio XII, il quale gli consigliò di distruggere il progetto della sua invenzione. Cosa che Marconi si affretto a fare, mandando in bestia Mussolini e gerarchi. Poi, forse per il troppo stress che aveva accumulato in quella disputa, nel 1937 improvvisamente venne colpito da un infarto e morì a soli 63 anni. 
La fine degli anni Trenta fu comunque molto prolifica da un punto di vista scientifico. Per qualche imperscrutabile gioco del destino, pare che la fantasia e la creatività degli italiani non fu soltanto all’origine della prima bomba nucleare realizzata negli Stati Uniti da Enrico Fermi e dai suoi colleghi di via Panisperna; altri scienziati, continuando gli studi sulla scissione dell’atomo, trovarono infatti il modo di «produrre ed emettere sino a notevoli distanze anti-atomi di qualsiasi elemento esistente sul nostro pianeta che, diretti contro una massa costituita da atomi della stessa natura ma di segno opposto, la disgregano ionizzandola senza provocare alcuna reazione nucleare, ma producendo egualmente una enorme quantità di energia pulita».

Tanto per fare un esempio concreto, ionizzando un grammo di ferro si sviluppa un calore pari a 24 milioni di KWh, cioè oltre 20 miliardi di calorie, capaci di evaporare 40 milioni di litri d’acqua. Per ottenere un uguale numero di calorie, occorrerebbe bruciare 15mila barili di petrolio. Sembra quasi di leggere un racconto di fantascienza, ma è soltanto la pura e semplice realtà. Almeno quella che i documenti in possesso dell’imprenditore genovese Enrico M. Remondini dimostrano.

La testimonianza
«Tutto è cominciato – racconta Remondini – dal contatto che nel 1999 ho avuto con il dottor Renato Leonardi, direttore della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, con sede a Vaduz, capitale del Liechtenstein. Il mio compito era quello di stipulare contratti per lo smaltimento di rifiuti solidi tramite le Centrali termoelettriche polivalenti della Fondazione Internazionale Pace e Crescita. Non mi hanno detto dove queste centrali si trovassero, ma so per certo che esistono. Altrimenti non avrebbero fatto un contratto con me. In quel periodo, lavoravo con il mio collega, dottor Claudio Barbarisi. Per ogni contratto stipulato, la nostra percentuale sarebbe stata del 2 per cento. Tuttavia, per una clausola imposta dalla Fondazione stessa, il 10 per cento di questa commissione doveva essere destinata a favore di aiuti umanitari. Considerando che lo smaltimento di questi rifiuti avveniva in un modo pressoché perfetto, cioè con la ionizzazione della materia senza produzione di alcuna scoria, sembrava davvero il modo ottimale per ottenere il risultato voluto. Tuttavia, improvvisamente, e senza comunicarci il perché, la Fondazione ci fece sapere che le loro centrali non sarebbero più state operative. E fu inutile chiedere spiegazioni. Pur avendo un contratto firmato in tasca, non ci fu nulla da fare. Semplicemente chiusero i contatti».

Remondini ancora oggi non conosce la ragione dell’improvviso voltafaccia. Ha provato a telefonare al direttore Leonardi, che tra l’altro vive a Lugano, ma non ha mai avuto una spiegazione per quello strano comportamento. Inutili anche le ricerche per vie traverse: l’unica cosa che è riuscito a sapere è che la Fondazione è stata messa in liquidazione. Per cui è ipotizzabile che i suoi segreti adesso siano stati trasferiti ad un’altra società di cui, ovviamente, si ignora persino il nome. Ciò significa che da qualche parte sulla terra oggi c’è qualcuno che nasconde il segreto più ambito del mondo: la produzione di energia pulita ad un costo prossimo allo zero.
Nonostante questo imprevisto risvolto, in mano a Remondini sono rimasti diversi documenti strettamente riservati della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, per cui alla fine l’imprenditore si è deciso a rendere pubblico ciò che sa su questa misteriosa istituzione. Per capire i retroscena di questa tanto mirabolante quanto scientificamente sconosciuta scoperta, occorre fare un salto indietro nel tempo e cercare di ricostruire, passo dopo passo, la cronologia dell’invenzione. Ad aiutarci è la relazione tecnico-scientifica che il 25 ottobre 1997 la Fondazione Internazionale Pace e Crescita ha fatto avere soltanto agli addetti ai lavori. Ogni foglio, infatti, è chiaramente marcato con la scritta «Riproduzione Vietata». Ma l’enormità di quanto viene rivelato in quello scritto giustifica ampiamente il non rispetto della riservatezza richiesta.

Il «raggio della morte», infatti, pur essendo stato concepito teoricamente negli anni Trenta, avrebbe trovato la sua base scientifica soltanto tra il 1958 e il 1960. Il condizionale è d’obbligo in quanto riportiamo delle notizie scritte, ma non confermate dalla scienza ufficiale. Non sappiamo da chi era composto il gruppo di scienziati che diede vita all’esperimento: i nomi non sono elencati. Sappiamo invece che vi furono diversi tentativi di realizzare una macchina che corrispondesse al modello teorico progettato, ma soltanto nel 1973 si arrivò ad avere una strumentazione in grado di «produrre campi magnetici, gravitazionali ed elettrici interagenti, in modo da colpire qualsiasi materia, ionizzandola a distanza ed in quantità predeterminate».

Ok dal governo Andreotti
Fu a quel punto che il governo italiano cominciò ad interessarsi ufficialmente a quegli esperimenti. E infatti l’allora governo Andreotti, prima di passare la mano a Mariano Rumor nel luglio del ’73, incaricò il professor Ezio Clementel, allora presidente del Comitato per l’energia nucleare (Cnen), di analizzare gli effetti e la natura di quei campi magnetici a fascio. Clementel, trentino originario di Fai e titolare della cattedra di Fisica nucleare alla facoltà di Scienze dell’Università di Bologna, a quel tempo aveva 55 anni ed era uno dei più noti scienziati del panorama nazionale e internazionale. La sua responsabilità, in quella circostanza, era grande. Doveva infatti verificare se quel diabolico raggio avesse realmente la capacità di distruggere la materia ionizzandola in un’esplosione di calore. Anche perché non ci voleva molto a capire che, qualora l’esperimento fosse riuscito, si poteva fare a meno dell’energia nucleare e inaugurare una nuova stagione energetica non soltanto per l’Italia, ma per il mondo intero. Tanto per fare un esempio, questa tecnologia avrebbe permesso la realizzazione di nuovi e potentissimi motori a razzo che avrebbero letteralmente rivoluzionato la corsa allo spazio, permettendo la costruzione di gigantesche astronavi interplanetarie. 
Il professor Clementel ordinò quindi quattro prove di particolare complessità. La prima consisteva nel porre una lastra di plexiglass a 20 metri dall’uscita del fascio di raggi, collocare una lastra di acciaio inox a mezzo metro dietro la lastra di plexiglass e chiedere di perforare la lastra d’acciaio senza danneggiare quella di plexiglass. La seconda prova consisteva nel ripetere il primo esperimento, chiedendo però di perforare la lastra di plexiglass senza alterare la lastra d’acciaio. Il terzo esame era ancora più difficile: bisognava porre una serie di lastre d’acciaio a 10, 20 e 40 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo di bucare le lastre a partire dall’ultima, cioè quella posta a 40 metri. Nella quarta e ultima prova si doveva sistemare una pesante lastra di alluminio a 50 metri dall’uscita del fascio di raggi, chiedendo che venisse tagliata parallelamente al lato maggiore.

Ebbene, tutte e quattro le prove ebbero esito positivo e il professor Clementel, considerando che la durata dell’impulso dei raggi era minore di 0,1 secondi, valutò la potenza, ipotizzando la vaporizzazione del metallo, a 40.000 KW e la densità di potenza pari a 4.000 KW per centimetro quadrato. In realtà, venne spiegato a sperimentazione compiuta, l’impulso dei raggi aveva avuto la durata di un nano secondo e poteva ionizzare a distanza «forma e quantità predeterminate di qualsiasi materia».

Tra l’altro all’esperimento aveva assistito anche il professor Piero Pasolini, illustre fisico e amico di un’altra celebrità scientifica qual è il professor Antonino Zichichi. In una sua relazione, Pasolini parlò di «campi magnetici, gravitazionali ed elettrici interagenti che sviluppano atomi di antimateria proiettati e focalizzati in zone di spazio ben determinate anche al di là di schemi di materiali vari, che essendo fuori fuoco si manifestano perfettamente trasparenti e del tutto indenni».

In pratica, ma qui entriamo in una spiegazione scientifica un po’ più complessa, gli scienziati italiani che avevano realizzato quel macchinario, sarebbero riusciti ad applicare la teoria di Einstein sul campo unificato, e cioè identificare la matrice profonda ed unica di tutti i campi di interazione, da quello forte (nucleare) a quello gravitazionale. Altri fisici in tutto il mondo ci avevano provato, ma senza alcun risultato. Gli italiani, a quanto pare, c’erano riusciti.

L’insabbiamento
In un Paese normale (ma tutti sappiamo che il nostro non lo è) una simile scoperta sarebbe stata subito messa a frutto. Non ci vuole molta fantasia per capire le implicazioni industriali ed economiche che avrebbe portato. Anche perché, quella che a prima vista poteva sembrare un’arma di incredibile potenza, nell’uso civile poteva trasformarsi nel motore termico di una centrale che, a costi bassissimi, poteva produrre infinite quantità di energia elettrica.
Perché, dunque, questa scoperta non è stata rivelata e utilizzata? La ragione non viene spiegata. Tutto quello che sappiamo è che i governi dell’epoca imposero il segreto sulla sperimentazione e che nessuno, almeno ufficialmente, ne venne a conoscenza. Del resto nel 1979 il professor Clementel morì prematuramente e si portò nella tomba il segreto dei suoi esperimenti. Ma anche dietro Clementel si nasconde una vicenda piuttosto strana e misteriosa. Pare, infatti, che le sue idee non piacessero ai governanti dell’epoca. Non si sa esattamente quale fosse la materia del contendere, ma alla luce della straordinaria scoperta che aveva verificato, è facile immaginarlo. Forse lo scienziato voleva rendere pubblica la notizia, mentre i politici non ne volevano sapere. Chissà? Ebbene, qualcuno trovò il sistema per togliersi di torno quello scomodo presidente del Cnen. Infatti venne accertato che la firma di Clementel appariva su registri di esame all’Università di Trento, della quale all’epoca era il rettore, in una data in cui egli era in missione altrove. Sembrava quasi un errore, una svista. Ma gli costò il carcere, la carriera e infine la salute. Lo scienziato capì l’antifona, e non disse mai più nulla su quel «raggio della morte» che gli era costato così tanto caro. A Clementel è dedicato il Centro ricerche energia dell’Enea a Bologna.
C’è comunque da dire che già negli anni Ottanta qualcosa venne fuori riguardo un ipotetico «raggio della morte». Il primo a parlarne fu il giudice Carlo Palermo che dedicò centinaia di pagine al misterioso congegno, affermando che fu alla base di un intricato traffico d’armi. La storia coinvolse un ex colonnello del Sifar e del Sid, Massimo Pugliese, ma anche esponenti del governo americano (allora presieduto da Gerald Ford), i parlamentari Flaminio Piccoli (Dc) e Loris Fortuna (Psi), nonché una misteriosa società con sede proprio nel Liechtenstein, la Traspraesa. La vicenda durò dal 1973 al 1979, quando improvvisamente calò una cortina di silenzio su tutto quanto.

Erano comunque anni difficili. L’Italia navigava nel caos. Gli attentati delle Brigate rosse erano all’ordine del giorno, la società civile soffocava nel marasma, i servizi segreti di mezzo mondo operavano sul nostro territorio nazionale come se fosse una loro riserva di caccia. Il 16 marzo 1978 i brigatisti arrivarono al punto di rapire il presidente del Consiglio, Aldo Moro, uccidendo i cinque poliziotti della scorta in un indimenticabile attentato in via Fani, a Roma. E tutti ci ricordiamo come andò a finire. Tre anni dopo, il 13 maggio 1981, il terrorista turco Mehmet Ali Agca in piazza San Pietro ferì a colpi di pistola Giovanni Paolo II.

È in questo contesto, che il «raggio della morte» scomparve dalla scena. Del resto, ammesso che la scoperta avesse avuto una consistenza reale, chi sarebbe stato in grado di gestire e controllare gli effetti di una rivoluzione industriale e finanziaria che di fatto avrebbe cambiato il mondo? Non ci vuole molto, infatti, ad immaginare quanti interessi quell’invenzione avrebbe danneggiato se soltanto fosse stata resa pubblica. In pratica, tutte le multinazionali operanti nel campo del petrolio e dell’energia nucleare avrebbero dovuto chiudere i battenti o trasformare da un giorno all’altro la loro produzione. Sarebbe veramente impossibile ipotizzare una cifra per quantificare il disastro economico che la nuova scoperta italiana avrebbe portato.

Ma queste sono solo ipotesi. Ciò che invece risulta riguarda la decisione presa dagli autori della scoperta. Infatti, dopo anni di traversie e inutili tentativi per far riconoscere ufficialmente la loro invenzione, probabilmente temendo per la loro vita e per il futuro della loro strumentazione, questi scienziati consegnarono il frutto del loro lavoro alla Fondazione Internazionale Pace e Crescita, che l’11 aprile 1996 venne costituita apposta, verosimilmente con il diretto appoggio logistico-finanziario del Vaticano, a Vaduz, ben al di fuori dei confini italiani. In quel momento il capitale sociale era di appena 30mila franchi svizzeri (circa 20mila Euro). «Sembra anche a noi – si legge nella relazione introduttiva alle attività della Fondazione – che sia meglio costruire anziché distruggere, non importa quanto possa essere difficile, anche se per farlo occorrono molto più coraggio e pazienza, assai più fantasia e sacrificio».

   A prescindere dal fatto che non si trova traccia ufficiale di questa fantomatica Fondazione, se non la notizia (in tedesco) che il primo luglio del 2002 è stata messa in liquidazione, parrebbe che a suo tempo l’organizzazione fosse stata costituita in primo luogo per evitare che un’invenzione di quella portata fosse utilizzata solo per fini militari. Del resto anche i missili balistici (con quello che costano) diventerebbero ben poca cosa se gli eserciti potessero disporre di un macchinario che, per distruggere un obiettivo strategico, necessiterebbe soltanto di un sistema di puntamento d’arma.
Secondo voci non confermate, la decisione degli scienziati italiani sarebbe maturata dopo una serie di minacce che avevano ricevuto negli ambienti della capitale. Ad un certo punto si parla pure di un attentato con una bomba, sempre a Roma. Si dice che, per evitare ulteriori brutte sorprese, quegli scienziati si appellarono direttamente a Papa Giovanni Paolo II e la macchina che produce il «raggio della morte» venisse nascosta per qualche tempo in Vaticano. Da qui la decisione di istituire la fondazione e di far emigrare tutti i protagonisti della vicenda nel più tranquillo Liechtenstein. In queste circostanze, forse non fu un caso che proprio il 30 marzo 1979 il Papa ricevette in Vaticano il Consiglio di presidenza della Società Europea di Fisica, riconoscendo, per la prima volta nella storia della Chiesa, in Galileo Galilei (1564-1642) lo scopritore della Logica del Creato. Comunque sia, da quel momento in poi, la parola d’ordine è stata mantenere il silenzio assoluto.

Le macchine del futuro
Qualcosa, però, nel tempo è cambiata. Lo prova il fatto che la Fondazione Internazionale Pace e Crescita non si sarebbe limitata a proteggere gli scienziati cristiani in fuga, ma nel periodo tra il 1996 e il 1999 avrebbe proceduto a realizzare per conto suo diverse complesse apparecchiature che sfruttano il principio del «raggio della morte». Secondo la loro documentazione, infatti, è stata prodotta una serie di macchinari della linea Zavbo pronti ad essere adibiti per più scopi. L’elenco comprende le Srsu/Tep (smaltimento dei rifiuti solidi urbani), Srlo/Tep (smaltimento dei rifiuti liquidi organici), Srtp/Tep (smaltimento dei rifiuti tossici), Srrz/Tep (smaltimento delle scorie radioattive), Rcc (compattazione rocce instabili), Rcz (distruzione rocce pericolose), Rcg (scavo gallerie nella roccia), Cls (attuazione leghe speciali), Cen (produzione energia pulita).
A quest’ultimo riguardo, nella documentazione fornita da Remondini si trovano anche i piani per costruire centrali termoelettriche per produrre energia elettrica a bassissimo costo, smaltendo rifiuti. C’è tutto, dalle dimensioni all’ampiezza del terreno necessario, come si costruisce la torre di ionizzazione e quante persone devono lavorare (53 unità) nella struttura. Un’intera centrale si può fare in 18 mesi e potrà smaltire fino a 500 metri cubi di rifiuti al giorno, producendo energia elettrica con due turbine Ansaldo.

C’è anche un quadro economico (in milioni di dollari americani) per calcolare i costi di costruzione. Nel 1999 si prevedeva che una centrale di questo tipo sarebbe costata 100milioni di dollari. Una peculiarità di queste centrali è che il loro aspetto è assolutamente fuorviante. Infatti, sempre guardando i loro progetti, si nota che all’esterno appaiono soltanto come un paio di basse palazzine per uffici, circondate da un ampio giardino con alberi e fiori. La torre di ionizzazione, dove avviene il processo termico, è infatti completamente interrata per una profondità di 15 metri. In pratica, un pozzo di spesso cemento armato completamente occultato alla vista. In altre parole, queste centrali potrebbero essere ovunque e nessuno ne saprebbe niente.

Da notare che, secondo le ricerche compiute dalla International Company Profile di Londra, una società del Wilmington Group Pic, leader nel mondo per le informazioni sul credito e quotata alla Borsa di Londra, la Fondazione Internazionale Pace e Crescita, fin dal giorno della sua registrazione a Vaduz, non ha mai compiuto alcun tipo di operazione finanziaria nel Liechtenstein, né si conosce alcun dettaglio del suo stato patrimoniale o finanziario, in quanto la legge di quel Paese non prevede che le Fondazioni presentino pubblicamente i propri bilanci o i nomi dei propri fondatori. Si conosce l’indirizzo della sede legale, ma si ignora quale sia stato quello della sede operativa e il tipo di attività che la Fondazione ha svolto al di fuori dei confini del Liechtenstein. Ovviamente mistero assoluto su quanto sia accaduto dopo il primo luglio del 2002 quando, per chissà quali ragioni, ma tutto lascia supporre che la sicurezza non sia stata estranea alla decisione, la Fondazione ufficialmente ha chiuso i battenti.

Ancora più strabiliante è l’elenco dei clienti, o presunti tali, fornito a Remondini. In tutto 24 nomi tra i quali spiccano i maggiori gruppi siderurgici europei, le amministrazioni di due Regioni italiane e persino due governi: uno europeo e uno africano. Da notare che, in una lettera inviata dalla Fondazione a Remondini, si parla di proseguire con i contatti all’estero, ma non sul territorio nazionale «a causa delle problematiche in Italia». Ma di quali «problematiche» si parla? E, soprattutto, com’è che una scoperta di questo tipo viene utilizzata quasi sottobanco per realizzare cose egregie (pensiamo soltanto alla produzione di energia elettrica e allo smaltimento di scorie radioattive), mentre ufficialmente non se ne sa niente di niente?

Interpellato sul futuro della scoperta da Remondini, il professor Nereo Bolognani, eminenza grigia della Fondazione Internazionale Pace e Crescita, ha detto che «verrà resa nota quando Dio vorrà». Sarà pure, ma di solito non è poi così facile conoscere in anticipo le decisioni del Padreterno. Neppure con la santa e illustre mediazione del Vaticano.

Fonte: ilgiornale.it
Ott 30, 2012 - Abuso di Potere, Ecologia, Economia, Informazione, InGiustizia, Politica    Commenti disabilitati su Il Sudamerica all’attacco dei colossi della finanza. E ce n’è anche per noi italiani.

Il Sudamerica all’attacco dei colossi della finanza. E ce n’è anche per noi italiani.

ecuador+2.jpgUn altro SPLENDIDO ARTICOLO di Sergio Di Cori Modigliani che non posso esimermi dal condividere con Voi.
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Parliamo oggi di geo-politica.
Dalla linea del fronte del Sudamerica.
Come l’Ecuador, il Brasile e l’Argentina. Stanno combattendo anche per noi.
Perché tutto ciò che sta accadendo là, ha dei riflessi potentissimi in Italia.
Ecco perché:
Quattro bei schiaffoni assestati sulla faccia di una delle prime dieci più importanti aziende del pianeta, il colosso petrolifero-finanziario denominato Chevron.
Si tratta della prima sentenza giuridica  (e già questa sarebbe una notizia clamorosa)  più ricca in termini economici (il che aggiunge clamore a clamore) nonché la più potente dal punto di vista politico (che aggiunge al clamore + clamore, la necessaria attenzione che merita) mai sancita nella Storia del continente sudamericano.
Perché da una parte abbiamo un’azienda che nel 2011 aveva un fatturato di circa 250 miliardi di euro (il pil della Grecia) e dall’altra la Repubblica dell’Ecuador, modesta nazione sull’Oceano Pacifico, con un pil nazionale intorno ai 20 miliardi di euro, una popolazione mite, pacifica,  piuttosto povera, e priva di esercito militare (il loro budget annuo per armamenti è pari a quello di una caserma italiana a Viterbo, per dire).
L’Ecuador ancora una volta sale alla ribalta della cronaca internazionale, dimostrando la preponderante forza del Diritto Civico internazionale quando essa è accompagnata da un’adeguata classe politica che si rifiuta di scendere a compromessi con i mega colossi finanziari planetari.
La notizia secca è la seguente: “L’azienda petrolifera statunitense, con sede legale a Dallas, Texas, Usa, denominata Chevron, ha definitivamente perso la class action intentatagli contro da 32.500 indiani autoctoni dell’ Ecuador, sostenuti dal governo che si è presentato come parte civile e danneggiata. In seguito alla sentenza definitiva, la Chevron è stata condannata al pagamento di 19 miliardi di euro per “crimini contro l’umanità, devastazione del territorio idro-geologico, sfruttamento intensivo non autorizzato di località naturali protette, provocando la morte e la miseria di decine di migliaia di persone dal 1964 al 2004”.
La sentenza definitiva non è nuova, è del febbraio 2011.
Poi c’è stato l’appello, nell’ottobre del 2011, che ha riconfermato la sentenza portando il risarcimento per danni da 15 a 19 miliardi di euro. La Chevron, in quella occasione, aveva protestato la decisione formalmente, sostenendo che “il governo dell’Ecuador non è autorizzato legalmente a formulare tali sentenze in quanto avvezzo all’esercizio di pratiche dittatoriali” e di conseguenza si è rivolta “formalmente e ufficialmente” alla Corte Suprema d’Alta Giustizia statunitense (sezione esteri) per chiedere l’annullamento della sentenza e il suo non riconoscimento. Gli Usa, infatti, sono stati identificati come “territorio giurisdizionale valido” perché l’atto d’accusa e la denuncia erano state recapitate –in maniera formalmente ineccepibile, nel pieno rispetto delle leggi americane- direttamente, a mano, nelle mani di un funzionario della Chevron, in Texas, da parte di un segretario d’ambasciata, accompagnato da due avvocati esperti in diritto internazionale. Il 10 ottobre del 2012, finalmente la Corte statunitense si è espressa, dopo aver valutato la documentazione che ha ritenuto la sentenza del Tribunale di Quito legittima, e quindi applicabile. La Chevron si è appellata (come la Legge gli consente) contestando la sentenza dei magistrati, e si è rivolta direttamente al Presidente Usa, Barack Obama, il quale avrebbe potuto esercitare la prerogativa di annullamento di tale sentenza, avvalendosi del comma 6 dell’articolo 4 del codice di regolamentazione presidenziale, laddove si spiega come “il presidente ha il potere di stabilire o meno la liceità di qualsivoglia sentenza internazionale ai danni di un’impresa che ha sede legale e opera nel territorio statunitense, a condizione che tale sentenza venga identificata, provata e definita, come lesiva degli interessi strategico-militari della federazione Usa”.
E qui è arrivata la notizia bomba, e l’inatteso aiuto e solida alleanza (questa è stata per davvero una sorpresa per l’intero continente sudamericano) che il presidente Rafael Correa ha ottenuto, al di là delle sue migliori aspettative.
Il presidente della Chevron, infatti, è uomo abituato a dare ordini a quasi tutto il mondo, e di sicuro a tutti i presidenti Usa (la Enron, la Wel, la Halliburton, sono tutte aziende della Chevron) dato che nel suo comitato ristretto dei probiviri siedono George Bush sr., George Bush jr., Jeff Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Bill Gates, il presidente della Visa e dell’American Express, e altri 10 grossi papaveri che da sempre foraggiano ogni presidente. Ha chiesto immediatamente udienza al presidente ottenendola. Data dell’appuntamento: 17 ottobre 2012. Ma all’ora dell’incontro, ha avuto una sorpresa, quella sì davvero inattesa. Invece di vedersela da solo, a tu per tu, con Obama –come pensava-  si è trovato in una stanza della Casa Bianca davanti a tre persone: il Ministro degli Esteri, Hillary Clinton, e due membri dell’avvocatura di Stato, un democratico e un repubblicano, come la Legge impone in Usa. Il presidente della Chevron, giustamente, è sbiancato. La Clinton gli ha consegnato copia della delega avuta dal Presidente e controfirmata dai due legali presenti, ed è iniziato il colloquio.
Peccato che non si chiami anche lei Christine, altrimenti avremmo la guerra delle tre Cristine.
Era dall’agosto del 1997 che Hillary Clinton aspettava quel momento.
E chi la conosce bene sa che è una donna vendicativa, oltre che una geniale stratega politica. Perché il presidente della Chevron è il più forte nemico personale di Hillary Clinton da quindici anni. Fu lei stessa a raccontarlo, nella primavera del 1998, al grande giornalista investigativo televisivo Peter Jennings, in una epica intervista andata in onda sul network ABC, quando spiegò come la Chevron, per conto del suo presidente, avesse imbastito lo scandalo sessuale di Monica Levinski con l’esclusivo interesse politico di ottenere la messa sotto accusa di suo marito e farlo dimettere perché aveva presentato al Congresso una legge per alzare l’aliquota delle tasse alle compagnie petrolifere. Allora, divenne un duello personale tra la Chevron e la Clinton che appassionò chi seguiva la vita politica americana. Perché quel duello è proseguito negli anni e non si è mai placato.
E così, la Clinton ha spiegato alla Chevron che non potevano far nulla per loro. Sembrerebbe che il presidente si sia imbizzarrito e abbia spiegato il suo punto di vista. “ a quegli indiani  bastardi io non gli do neppure un dollaro”.  I due avvocati, quindi, gli hanno spiegato come funziona la Legge. Nel caso lui si fosse rifiutato di pagare, dato che –proprio poche ore prima- era arrivata, attraverso canali diplomatici, la richiesta ufficiale da parte della Repubblica dell’Ecuador di ottenere il pagamento, lo Stato Federale Usa non si sarebbe fatto carico del debito, e subito dopo avrebbero ritirato alla Chevron “l’esercizio della licenza commerciale in tutto il territorio Usa”. Gli hanno spiegato che avrebbero dato ordine all’FBI di sigillare tutte le pompe di benzina e la Chevron sarebbe stata denunciata dal governo e sottoposta a processo da parte di una commissione del Congresso. Il presidente della Chevron si è alzato, ha mandato tutti a quel paese e se n’è andato. I suoi avvocati hanno avvertito l’Ecuador.
E così, in data 22 ottobre 2012, il piccolo Stato dell’Ecuador ha congelato tutti i conti correnti della Chevron in ogni nazione del continente sudamericano (circa 8 miliardi di dollari) e ha presentato regolare denuncia all’interpol e al consiglio di sicurezza dell’Onu.
In Sudamerica non si parla d’altro che di questo e della notizia successiva.
In Italia, neppure l’ombra della notizia, se non una nota di quattro righe (nel senso di 4) apparsa su Il Sole 24 ore, poi scomparsa, che non è stata ripresa da nessuno, né sul mainstream né in rete. Ad esclusione di un sito italiano che si occupa di problemi dell’ecologia sostenibile e odia le aziende produttrici di petrolio. Il sito si chiama greenpoint.it.  Ecco l’articolo che hanno pubblicato:
La Corte Suprema Usa ha respinto la  richiesta della Chevron per l’annullamento di una sentenza, emessa da un giudice ecuadoriano, che gli impone di pagare indennizzi per 18,2 miliardi di dollari per i danni causati dalle trivellazioni petrolifere in Amazzonia. La decisione della Corte Suprema è l’ultimo sviluppo in una lunga battaglia legale che ha scaricato sulla Chevron (che nel 2001 ha comprato la concessione petrolifera in Equador ereditando le responsabilità della Texaco)  i danni causati dal continuo sversamento di greggio da parte di un consorzio capeggiato dalla  Texaco. La sentenza ecuadoriana da 18,2 miliardi di dollari è stata emessa nei primi mesi del 2011, dopo 8 anni di indagini  nella città  petrolifera di Lago Agrio, l’Ecuador ha scoperto che la Texaco deliberatamente sversato più di 16 miliardi di galloni di greggio, fanghi e rifiuti tossici in Amazzonia dal 1964 al 1992, che hanno gravemente inquinato sorgenti, falde e corsi d’acqua, causando problemi di salute tra gli abitanti e decimato tribù indigene della regione del Lago Ario, così 30.000 persone hanno promosso l’azione legale.
Il rappresentante della Chevron in Ecuador, Rodrigo Perez Pallares, aveva ammesso che erano stati sversati almeno 16 miliardi di galloni di “produced water” nei corsi d’acqua dell’Amazzonia ecuadoriana in aree utilizzate dalle comunità indigene per l’acqua potabile, per fare il bagno e pescare. L’environmental auditor della Chevron, Fugro-McClelland, ha confermato che  nel 1992 in Ecuador la Chevron  «Ha sversato “Produced water”  dai sui impianti produttivi al  fine di scaricarla nei torrenti e nei corsi d’acqua» e che, ad eccezione di un impianto, nessuno degli scarichi «Era registrato» presso le autorità ecuadoriane. La Corte dell’Equador ha trovato prove dettagliate di oltre 900 pozzi contenenti rifiuti scavati nel suolo della foresta pluviale e abbandonati dalla Texaco che sono pieni di fanghi petroliferi che continuare a contaminare i terreni e le acque sotterranee. Secondo i rilievi degli esperti il materiale tossico ammonterebbe ad  oltre 5,6 milioni di m3, ai quali vanno aggiunte le numerose fuoriuscite di petrolio e il gas flaring che ammorba l’aria. La Chevron aveva subito rigettato la decisione della corte ecuadoriana, definendola «Fraudolenta»  e «Viziata da cattiva condotta giudiziaria» inoltre la Big Oil sosteneva che la decisione non fosse esecutiva ai sensi del diritto di New York.  Intanto gli avvocati degli ecuadoriani hanno recentemente avanzato richieste che puntano al sequestro di miliardi di dollari di asset della Chevron in Canada e Brasile ed hanno promesso di promuovere azioni di sequestro al più presto anche in altri Paesi, cosa che scondo la Chevron le avrebbe creto potenziali problemi operativi. La Chevron si era rivolta alla Corte suprema di New York ma ha perso, e l’high court ha respinto la sua richiesta di un provvedimento inibitorio che avrebbe impedito l’applicazione in tutto il mondo della sentenza dell’Ecuador.
Si tratta di una sconfitta per tutta la lobby delle Big Oil: diversi business groups  tra cui la Camera di Commercio Usa, la National association of manufacturers ed Halliburton, che aveva presentato memorie per conto del gigante petrolifero.
Nel 2010 e nel 2011 gli avvocati della Chevron  hanno sostenuto più volte che il pagamento della sentenza causerebbe «Un danno irreparabile» alla compagnia» con sequestri di petroliere ed attrezzature che potrebbero addirittura interrompere il flusso di distribuzione del petrolio da parte della multinazionale e quindi tutto questo «Incide non solo in una giurisdizione, ma in tutto il mondo».  Fino ad ora la Chevron nella sua campagna di pubbliche relazioni sosteneva che i tribunali americani avevano trovato la “frode” nel procedimento dell’Ecuador, ma la sentenza Usa la smentisce categoricamente e forse definitivamente.
Aaron Marr Page, un avvocato degli ecuadoriani, ha detto: «L’ultima sconfitta della Chevron davanti alla Corte Suprema è un esempio della  battaglia della sempre più inutile della compagnia per evitare di pagare i suoi obblighi giuridici in Ecuador. Chevron ha fatto  ricorso alla giustizia  mentre con i suoi scarichi tossici continua a creare un pericolo imminente di morte per i popoli indigeni in Ecuador». Un tribunale dell’Ecuador ha ordinato il blocco di tutti i beni nel Paese del gigante petrolifero Chevron. La decisione è stata presa in seguito al rifiuto della compagnia statunitense di pagare una multa da 19 miliardi di dollari comminata nel febbraio 2011 da un tribunale ecuadoriano. La Chevron è accusata dalla popolazione locale, 30mila persone, di aver provocato, tramite la sua controllata Texaco, gravi danni ambientali durante il periodo in cui estraeva petrolio nella foresta amazzonica, tra il 1964 e il 1990. Chevron ha fatto sapere di rifiutare la decisione del tribunale, che interviene una settimana dopo che la Corte suprema degli Stati Uniti, cui la compagnia si era rivolta, ha rifiutato di bloccare la multa miliardaria.
Le altre due notizie riguardano l’Argentina e il Brasile.
Per quanto riguarda l’Argentina la questione è all’ordine del giorno in tutto il continente sudamericano, seguita con enorme attenzione anche in tutta l’Europa del Nord e in Asia, dato che il ministro degli esteri argentino,  Hector Timerman, in data 22 ottobre 2012, è volato a New York dove ha presentato formale istanza all’assemblea dell’Onu contro il cittadino americano Paul Singer, un noto sciacallo della finanza speculativa e vera e propria iena mercatista, il quale, a nome di un fondo speculativo d’investimento con sede a Panama, ha fatto sequestrare nel Ghana, 20 giorni fa, la nave scuola argentina “Libertad” sostenendo di vantare un credito dal governo argentino, immediatamente appoggiato in questo frangente dal Fondo Monetario Internazionale. Ecco qui di seguito, il comunicato stampa ufficiale del governo argentino, pubblicato su tutta la stampa internazionale (l’Italia è tra le nazioni che hanno scelto di non pubblicarlo):
Por medio de un comunicado que leyó en la Casa Rosada junto al ministro de Defensa, Arturo Puricelli, Timerman anticipó que mañana liderará una misión al Consejo de Seguridad de las Naciones Unidas, para denunciar la violación de los derechos humanos de los tripulantes y de tratados internacionales y la comisión de delitos financieros. La decisión implica el fracaso de las negociaciones iniciadas el lunes pasado por una delegación diplomática enviada a la capital del país africano, Accra, para liberar el buque retenido en el puerto de Tema. El comunicado incluye fuertes críticas al país africano y al juez que acogió el pedido de los bonistas. Y reitera la denuncia de un complot entre “los fondos buitre” y “sus socios argentinos”, para extorsionar al país.
Luego de que la Presidenta ordenara ayer evacuar la Fragata Libertad, retenida desde hace 20 días en Ghana, el canciller Héctor Timerman partió este mediodía rumbo a Nueva York para tratar el caso ante Naciones Unidas.
Según el comunicado emitido esta mañana por el Ministerio de Relaciones Exteriores, el funcionario mantendrá durante el lunes reuniones con las autoridades del organismo internacional, incluida una cita con el secretario general, Ban Ki-Moon. “Timerman lleva como único tema de agenda la detención ilegal de la Fragata Libertad en Ghana, en cuanto se trata de un preocupante precedente para la navegación mundial debido a que un juez ghanés ha decidido no respetar la inmunidad de una embarcación militar reconocida por el Derecho Internacional Público del que Ghana es parte”, dice el comunicado. La Fragata Libertad está retenida desde hace 20 días en Ghana por una demanda presentada por tenedores de bonos en default de la Argentina. La medida de desalojar la nave fue anunciada ayer por Timerman, quien denunció que los 326 tripulantes del navío estaban en riesgo por “falta de garantías”
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Il debito chiesto da questo finanziere riguarda la questione dei bonos argentini andati in default nel 2001. In seguito alla bancarotta, il governo argentino, com’è noto, a differenza dell’Ecuador si è dichiarato “nazione insoluta e insolvibile” ma ha riconosciuto “pienamente e legittimamente” la quantità di debito dovuta, chiedendo e ottenendo dilazioni e sconti pagabili nell’arco di dieci anni, di cui l’ultima tranche è stata saldata lo scorso 2 agosto 2012, con sei mesi di anticipo sulla scadenza prevista. In seguito alla varie contrattazioni, sono stati stabiliti diversi parametri, approvati, a suo tempo, da tutte le organizzazioni internazionali. Il signor Paul Singer è un cittadino privato, proprietario del fondo Elliot management, con sede a Panama. La sua lucrosa attività decennale, consiste nel gettarsi come una iena sulle nazioni sudamericane acquistando buoni del tesoro nei momenti di difficoltà scommettendo al ribasso per spingerli al fallimento e al momento giusto vendere il tutto, incassare il premio speculativo dell’assicurazione, mandando a picco le quotazioni. Lo ha fatto sei volte in Perù, Bolivia, Argentina. Il tutto gestito da una società che si chiama NML Capital, con sede a Panama, di cui è stato consulente Walter Lavitola. Il signor Paul Singer è uno dei grandi finanziatori di Mitt Romney. Costui sostiene il diritto di prelazione sul premio di assicurazione dei tango bonds, datato 2002, in quanto ha protestato l’offerta di patteggiamento offerta dal Fondo Monetario Internazionale, la cui presidenza –guarda caso- proprio un mese fa ha scovato un comma dell’accordo e gli ha dato ragione. E così, un cittadino privato statunitense ha convinto (????) il governo del Ghana a sequestrare una nave militare argentina (con 25 marinai a bordo) a saldo della cifra da lui richiesta, violando ogni convenzione internazionale del Diritto.
Non si parla d’altro che di questo, in tutto il Sudamerica, in Canada, e in Usa nella sezione esteri.
La Kirchner , va da sé, è furibonda, così come lo è l’opinione pubblica argentina e sudamericana. Tanto più che il signor Singer – appoggiato e sostenuto da Mitt Romney pubblicamente un’ora e mezza prima di scontrarsi sulla politica estera con Obama alla tivvù- ha dichiarato con la conseguente eleganza che lo contraddistingue “è bene che in Sudamerica si diano una regolata, quei topi da fogna, e che capiscano che il mercato decide il destino delle Libertà” (la nave argentina si chiama, per l’appunto, Libertad).
Ed è arrivata, pertanto, la terza notizia, questa tutta politica, al 100% politica, che va a colpire il cuore della Repubblica Italiana, perché, come ha detto qualche giorno fa alla tivvù argentina il portavoce del governo, “questa è una porcheria del trio fascista europeo e la pagheranno molto cara questa volta” (ndr. Il trio fascista sarebbe Christine Lagarde/ Mario Draghi/Mario Monti).
Il conto lo sta presentando il Brasile, la nazione più potente del continente sudamericano, dal punto di vista militare, economico, culturale, politico.
E’ il grande sindacalista Lula da Silva, ex presidente che ha cambiato il volto e le prospettive esistenziali della nazione carioca, a guidare la carica. In Brasile hanno iniziato una campagna pubblica di massa raccontando come funziona il sistema di corruzione fascista degli italiani e di come per dieci anni sono stati obbligati a violare ogni Legge internazionale per pagare tangenti ai funzionari governativi italiani che “si facevano dare il via libera dalle apposite commissioni europee per venderci armi, cibo e medicine,  ma poi pretendevano la percentuale tra il 10 e il 15% sottobanco versate su conti estero su estero ai diversi ministri e sottosegretari. L’ex ministro della difesa brasiliano ha fatto sapere pubblicamente di essersi messo a disposizione della magistratura italiana per fornire ogni dettaglio che gli venga richiesto. E lui ha in mano tutte le ricevute dei versamenti fatti, i nomi delle personalità, i conti correnti, le cifre. Da un primo calcolo degli analisti economici sudamericani si rileva che il buco nel bilancio statale della Repubblica Italiana nella sezione “forniture di materiale strategico al Sudamerica” nell’arco di tempo tra il 2001 e il 2011 si aggira intorno ai 50 miliardi di euro. Ai quali bisognerebbe assommare quelli relativi all’Africa, all’Asia, al Medio-Oriente e ai paesi arabi, località che non seguo, di cui non dispongo informazioni dettagliate. Una cifra questa che non è inserita “ufficialmente” nel bilancio, ma che risulta “realmente” spesa; il che spiega in parte come sia possibile che a fronte di tutte queste manovre economiche degli ultimi 30 mesi, la spesa pubblica aumenti ancora invece di diminuire.
Ne viene fuori, quindi, un quadro geo-politico completamente diverso da quello che ci stanno raccontando i media tutti i giorni a proposito del cosiddetto “scandalo Finmeccanica”. Non c’è nessuna brava persona che si è pentita e ha confessato, non c’è nessun successo della magistratura, non c’è nessuna abilità investigativa né tantomeno volontà governativa nel dire come stanno le cose.
Ci sono i brasiliani che stanno vuotando il sacco, consapevoli di trovarsi sulla prima linea del fronte. E’ un’altra storia.
Perché prosegue la guerra tra le due Cristine.
E non si tratta di zuffe isteriche tra due donne capricciose.
Si tratta di ben altro.
Si tratta dell’incompatibile scelta tra un continente che ha detto “no ai diktat della finanza speculativa internazionale” e ha scelto di essere autonomo, indipendente, e investire risorse, intelligenza, volontà ed entusiasmo, che si sta scontrando con nazioni come l’Italia che ha invece scelto di mettersi al servizio passivo dei colossi finanziari che stanno strozzando l’economia del continente, ben rappresentati dal governo che abbiamo.
Si tratta della campagna elettorale statunitense che si gioca anche su questi terreni.
Perché è completamente FALSO ciò che sostengono i beceri complottisti che presentano Romney e Obama come due facce della stessa medaglia. E’ una idiozia bella e buona. Come a dire che se nel 1932 invece di Franklin Delano Roosevelt fosse andato al potere il suo avversario sarebbe stato uguale oppure se nel 1960 invece che Kennedy avesse vinto Nixon sarebbe stata la stessa cosa. O -nel caso dell’Ecuador- se invece di vincere nel 2007 Rafael Correa avesse vinto il suo antagonista (laico, social-democratico, libertario, ma guarda caso amante delle multinazionali Usa) non sarebbe cambiato nulla. Il che autorizza e spinge a pensare che se in Sicilia vince Cancellieri o Miccichè è la stessa cosa, così come è la stessa cosa se le primarie del PD le vince Nichi Vendola o Matteo Renzi. Non è così. Ma soprattutto non è così che si legge la Politica.
Esiste un “potere forte” che è molto più forte di qualsivoglia altro potere: è il “potere personale”, ed è quello manifestato nella Storia, negli ultimi 10.000 anni, in tantissimi frangenti. Sono gli individui che hanno fatto la differenza, e si sono assunti la responsabilità di operare cambiamenti epocali. E’ avvenuto, è accaduto. Se non fosse così, il fascismo appena insediato, nel maggio del 1924 non avrebbe deciso di far assassinare Giacomo Matteotti, tanto un socialista valeva l’altro. E invece non era così.
Non è così, e non sarà mai così.
Se vince Romney vincono gli strozzini della finanza che vogliono de-industrializzare l’Europa e cinesizzare il mercato del lavoro per schiavizzarci definitivamente.
Se vince Obama, non saranno affatto rose e fiori. Ma una cosa è certa. 24 ore dopo la sua vittoria che io fortemente auspico, si apre “il Grande Contenzioso” e lì avremo una carta e una possibilità da giocarci tutti.
Perché il vero nemico degli Usa è la Cina.
Il vero nemico americano è lo yuan che sta per sostituire il dollaro, ed è ciò che vogliono i colossi finanziari. E quindi, Obama, per salvaguardare il suo impero e combattere lo yuan, deve “assolutamente” abbattere l’euro, moneta solo virtuale, sull’orlo del collasso, sostenuta soltanto dai cinesi a Hong Kong in funzione anti-americana. Sono due prospettive opposte, altro che uguali!
Volete uscire dall’euro? Volete che la BCE venga messa all’angolo? Volete che ci sia anche una possibilità di abbattere il fiscal compact?
Sperate, allora, che vinca Obama.
Lì, a Washington, Paul Krugman, John Stiglitz, Nouriel Roubini e Christina Rohmer, stanno già scaldando i motori. Lo sanno benissimo qual è la posta in gioco, e sanno quale sia il fronte della battaglia, e come combatterla.
In Italia, non hanno neppure capito che stiamo in guerra.
Anche perché nessuno spiega il funzionamento dell’attuale quadro geo-politico.
Va da sé che non è certo casuale.

Fonte: sergiodicorimodiglianji.blogspot.it
Ott 14, 2012 - Abuso di Potere, Bancocrazia, Economia, Finanza, Giustizia, Informazione, Truffe    Commenti disabilitati su LA BANCA CENTRALE PUBBLICA DELL’ARGENTINA E’ UN FARO PER LA DEMOCRAZIA NEL MONDO

LA BANCA CENTRALE PUBBLICA DELL’ARGENTINA E’ UN FARO PER LA DEMOCRAZIA NEL MONDO

Quando l’equipaggio di una nave si trova in mare aperto, nel mezzo di una tempesta, e di una Tempesta Perfetta per giunta, l’unica cosa che vorrebbe disperatamente scorgere all’orizzonte è la luce di un faro. La salvezza, la terraferma. In Argentina, all’estremità sud del paese, poco più a est della Terra del Fuoco, si trova una piccola isola, quasi uno scoglio in verità, dove c’è un antico faro dal nome evocativo: il Faro della Fine del Mondo. Poco più in là c’è l’Antartide, con le sue immense distese di ghiaccio, voltandosi indietro si intravedono invece le sconfinate e rigogliose praterie argentine. E in mezzo il Faro. Un luogo magnifico ai confini del mondo, che non a caso lo scrittore francese di romanzi d’avventura Jules Verne, l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”, ha utilizzato per ambientare uno dei suoi libri meno conosciuti: “Il faro in capo al mondo”. In effetti a partire dal 1991, il faro argentino ha perso il primato di essere quello più a sud del mondo, perché né è stato costruito uno a Capo Horn in Cile, ma rimane sicuramente il monumento più antico e famoso, che oggi più che mai rappresenta un vero spartiacque simbolico di civiltà. Una speranza per tutti i naviganti che transitano da quelle parti e sono sommersi e travolti dalle onde della Tempesta Perfetta globale, senza sapere ancora come venirne fuori e quali strumenti utilizzare per domarla.

In perfetta analogia, l’Argentina guidata dalla presidentessa Cristina Kirchner, così come il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, è diventato un faro, una speranza per quei popoli del mondo, dall’Europa alla Cina passando per gli Stati Uniti, che oggi aspirano a ripristinare un regime democratico al servizio dei cittadini e dei diritti umani, dopo essere stati soppressi e repressi dall’occupazione quasi militare dei tecnocrati, dei faccendieri, dei politicanti, degli elefantiaci apparati dirigisti che lavorano alacremente  soltanto per tutelare gli interessi delle lobbies finanziarie, dei comitati d’affari, delle corporazioni multinazionali. Un abisso di distanza in termini di cammino evolutivo della civiltà, che è ancora più accentuato dal fatto che la censura della propaganda di regime dilagante in Europa impedisce a noi cittadini di sapere cosa stia accadendo esattamente in Sudamerica, visto che gli organi di informazione su ordine preciso dei loro potenti committenti hanno completamente tagliato fuori dai circuiti della stampa e della televisione le notizie provenienti da quei paesi. Senza andare troppo per il sottile, il continente sudamericano è stato letteralmente cancellato dalle carte geografiche del mondo, perché i cittadini lobotomizzati e teleguidati d’Europa e degli Stati Uniti non devono sapere nulla dei cambiamenti che stanno avvenendo laggiù. I drastici mutamenti di paradigma rispetto al dogmatismo medievale dell’Occidente, con il loro cattivo esempio, potrebbero infatti spezzare di colpo la catena psicologica su cui si fonda gran parte dell’egemonia totalitarista che ci governa: TINA, There Is No Alternative, non c’è nessuna alternativa alla tecnocrazia neoliberista, si fa come dicono loro e basta. E invece, al pari di ogni altra questione che coinvolge la vita umana, l’alternativa c’è, eccome se c’è. E si chiama Argentina.
La storia della crisi e successiva rinascita dell’Argentina è abbastanza nota e per certi versi, soprattutto nelle caratteristiche della fase di declino, molto simile a ciò che sta accedendo oggi nell’eurozona. Con il pretesto di creare maggiore stabilità nei rapporti commerciali con l’estero e in particolare con gli Stati Uniti, nel 1991 il governo Menem decide di ancorare il cambio del peso al dollaro, con una scellerata parità fissa di 1:1 che ovviamente apprezzava troppo la moneta argentina rispetto alla valuta statunitense. Il risultato è stato che per un certo periodo di tempo per gli argentini è stato molto conveniente importare prodotti dall’estero prezzati in dollari e questo eccessivo ricorso alle importazioni ha creato un deficit permanente nella bilancia commerciale, che è stato inizialmente compensato dal notevole afflusso di capitali e investimenti esteri. Sull’onda di questa maggiore fiducia e apertura del governo alle imprese straniere, le multinazionali americane ed europee strapparono facilmente diverse concessioni per gestire i servizi essenziali un tempo pubblici, dagli acquedotti all’energia, dall’industria estrattiva e mineraria alle telecomunicazioni, esportando i profitti in patria, lontano dall’Argentina, e ponendo le basi per un maggiore indebitamento estero del paese. Sia i titoli finanziari privati che quelli pubblici argentini, i famigerati Tango Bonds, venivano piazzati in tutto il mondo assicurando alti rendimenti agli investitori e fornendo un’illusoria parvenza di stabilità economica del paese. Si trattava però di un equilibrio molto precario e sono bastati gli effetti di contagio della crisi delle borse asiatiche del 1997 per mettere in ginocchio il paese e svelare al mondo la reale insostenibilità del suo straordinario sviluppo economico.

I capitali esteri sui quali si fondava il sostanziale equilibrio contabile della bilancia dei pagamenti cominciano afuggire dal paese, gli investitori più accorti vendono in fretta i titoli argentini per limitare le perdite e il governo si vede costretto a bruciare notevoli quantità di riserve di moneta estera per mettere in condizione i debitori di rimborsare i debiti contratti, ad imporre riforme di austerità per rastrellare liquidità dal basso e ad aumentare itassi di interesse a livelli non più credibili, per favorire l’arrivo di nuovi capitali dall’estero. Questo circolo viziosodura fino a dicembre del 2001 quando, sulla spinta delle proteste popolari, il governo decide di dichiararedefault sul debito estero denominato in dollari, che ammontava a circa $95 miliardi, e i suoi maggiori rappresentanti sono costretti a scappare in elicottero dal paese per evitare il linciaggio

Da quel momento in poi si apre una pagina del tutto nuova nella storia dell’Argentina. Nel maggio 2003, dopo la parentesi della presidenza di Eduardo Duhalde durata due anni, viene eletto a capo del paese Nestor Kirchner, che comincia fin da subito un lungo braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare lecondizioni di rimborso del debito: l’Argentina vuole ripagare i debiti ma secondo le sue modalità e i suoi tempi e non accettando passivamente le severe scadenze imposte dai creditori. In secondo luogo, con un piano progressivo di ristrutturazione il governo argentino si riappropria della gestione dei servizi pubblici essenziali, estromettendo le multinazionali, per consentire innanzitutto un maggior controllo sui prezzi di erogazione, e questo atteggiamento contrario agli interessi privati dei grandi colossi internazionali inasprisce i rapporti con il FMI, che delle loro logiche predatorie e parassitarie è il tutore a livello globale. A peggiorare ancora di più la situazione, Kirchner avvia politiche sociali per ridurre la povertà e la disoccupazione, cosa anche questa che fa infuriare il FMI, che proprio sulle ampie sacche di povertà e disoccupazione prodotte dalle sue stesse ricette di austerità crea i presupposti per fornire manovalanza a buon mercato per le multinazionali.

Mentre continua senza sosta il duello frontale a distanza fra governo argentino e FMI, la rapida svalutazione delpeso rispetto al dollaro seguita al default, che si aggira intorno al 200% con un rapporto di cambio ora più realistico e aderente alle esigenze dell’economia argentina di circa 3 pesos per un dollaro, fornisce intanto undoppio beneficio per la bilancia commerciale del paese: da un lato favorisce le esportazioni e dall’altro rende più costose le importazioni, a tutto vantaggio delle produzioni locali. Lentamente l’Argentina riesce a rimettere ordine nei suoi conti disastrati, anche se bisogna subito sottolineare, come già evidenziato in uno splendido articolo pubblicato sul blog Voci dall’Estero, che non è affatto basata sulle esportazioni la grande ripresa economica dell’Argentina, la quale dura inarrestabilmente dal 2° trimestre del 2002 fino ad oggi. Durante ilperiodo che va dal 2002 al 2011, lo stesso FMI certifica una crescita cumulata del PIL argentino del 94%, che equivale esattamente ad una straordinaria media annua del 9,4% (al pari se non più della stessa Cina), mentre il contributo delle esportazioni sul PIL cumulato nella fase più forte di espansione (2002-2008) si limita ad un modesto 7,6%, cioè solo il 12% del totale. Troppo poco per essere un fattore realmente decisivo e determinante. Se esaminiamo il grafico sotto possiamo in effetti notare che le esportazioni sono cresciute in valore, ma in relazione al ritmo travolgente di aumento del PIL l’apporto dell’export è diventato sempre più marginale e decrescente e se consideriamo infine il saldo netto fra export ed import avremo addirittura un risultato negativo (importazioni di poco superiori alle esportazioni).
Ciò significa che la violenta accelerazione del PIL argentino è dovuta evidentemente ad altri fattori e in particolar modo proprio ai due elementi che vengono sempre ignorati nei programmi di “austerità espansiva” (un imbarazzante e assurdo ossimoro che circola impunemente nei messaggi rassicuranti della propaganda asservita, perché come stiamo sperimentando sulla nostra pelle, nel mondo reale non ci può essere mai crescita economica quando si tagliano le spese e si aumentano le tasse) promossi in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo dalle orde oscurantiste e dogmatiche di neoliberisti al governo: l’aumento dei consumi e degli investimenti interni (rispettivamente il 45,4% e il 26,4% del totale). Entrambi questi obiettivi sono i più abbordabili da raggiungere per un governo che ha piena disponibilità della sua moneta e di tutte le leve di politica economica, a dimostrazione ancora del fatto che per avvicinare traguardi importanti e ambiziosi spesso bisogna seguire le vie più semplici e dirette, senza complicarsi la vita con gli inutili e pretestuosi tecnicismi inventati di sana piana per confondere le acque e i malsani suggerimenti di cattedratici ampollosi, arroganti, autoreferenziali, corrotti e distanti anni luce dalla realtà della vita quotidiana e dalle esigenze materiali di milioni di individui. Se vuoi aumentare i livelli di spesa, la crescita economica di un paese, devi mettere in condizione cittadini e aziende di spendere e di investire. Chi non capisce questo semplice concetto o è stupido o è stato pagato a sufficienza per far finta di essere stupido.

Ma come si è potuta ottenere in Argentina un’esplosione così travolgente e rapida di tali fattori? Semplice, lo Stato argentino, sotto la guida di Nestor Kirchner prima e della moglie Cristina Fernandez a partire dal 2006, ha ricominciato ad attuare normalissime politiche economiche attive a sostegno della popolazione senza trincerarsi più dietro il vile arretramento imposto dalle cure indigeste del FMI e soci. Un esempio evidente è il programma di inserimento “Jefes de Hogar” (Capi Famiglia), tramite il quale sono stati messi a lavorare nel settore pubblico, in impieghi socialmente utili e spesso part-time, ben 2 milioni di disoccupati in un solo anno(il 13% della forza lavoro attiva), che dall’assenza di mezzi monetari hanno adesso un salario minimo garantitocon cui potere soddisfare i bisogni primari del proprio nucleo familiare e programmare gli investimenti futuri. Il governo argentino ha poi direttamente organizzato progetti a livello federale, statale e locale e tra questi: grandi investimenti infrastrutturali e iniziative di riciclaggio, progetti di irrigazione e rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi per i senzatetto, biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi di assistenza agli anziani, centri contro la violenza in famiglia, e molte altre attività sociali. I posti di lavoro così creati nel settore pubblico non solo hanno prodotto reddito, occupazione, rilancio dei consumi e dell’attività produttiva, ma anche qualificazione, istruzione e formazione per tutti i partecipanti, credenziali queste che possono essere rivendute in futuro anche nel settore privato.
 
Ma come ha potuto il governo argentino finanziare tutte queste attività? Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: la banca centrale, il Banco Central de la Republica Argentina, ha rinunciato al dogma inutile e controproducente dell’autonomia e indipendenza e si è messa al servizio del governo argentino, finanziando la sua spesa pubblica tramiteemissioni di nuova base monetaria (riserve bancarie elettroniche, banconote, monete metalliche). Analizzando i contributi netti al PIL cumulato nel periodo 2002-2011, avremo così che la spesa pubblica si aggira intorno alla considerevole quota del 35%: una cifra importante ma in verità molto inferiore rispetto per esempio alla spesa pubblica annuale in Italia, che supera spesso il 50% del PIL complessivo della nazione. Tuttavia, essendo stata convogliata verso finalità utili e redditizie e avendo messo soprattutto nuovi mezzi monetari nelle mani di chi per ovvi motivi ha più tendenza a spendere e consumare rispetto alla sterile tesaurizzazione precauzionale dei risparmi, la spesa pubblica argentina ha subito prodotto effetti positivi di espansione economica a tutti i livelli.

Da notare anche che l’Argentina non si è volontariamente ingabbiata in frustranti vincoli di pareggio di bilancio, potendo quindi modulare il regime di tassazione progressiva e indiretta in base a quelle che sono lereali esigenze di contenimento dell’inflazione e mantenimento nel tempo del potere di acquisto del peso. InItalia invece non solo la spesa pubblica è sproporzionata e spesso inefficiente, ma i cittadini e le aziende sono pure gravati da un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, che annulla sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in atto politiche espansive. Mentre in Argentina si creano soldi dal nulla e questi soldi vengono spesi nell’economia reale, in Italia si prendono in prestito soldi dai mercati finanziari da spendere spesso in modo dissennato e a vantaggio di una ristretta casta di privilegiati e questi soldi più gli interessi devono essere poi prelevati dalle tasche dei comuni cittadini, dei lavoratori e delle aziende, con tutte le nefaste e inesorabili conseguenze che ciò comporta in termini di riduzione dei consumi e degli investimenti. Preso atto di questecircostanze più politiche che strettamente tecniche e della scelta suicida di sottostare ai mercati finanziari, non esiste allora alcun motivo per stupirsi o meravigliarsi se in Argentina l’economia continua a crescere mentre in Italia siamo in profonda recessione. E così strano che scelte tanto distanti fatte a monte dai rispettivi governi si riflettano poi a valle in effetti altrettanto divergenti e contrastanti? Non dovrebbe essere lasemplice matematica a suggerirci che sarebbe andata a finire così?

Fra l’altro il sostegno della banca centrale argentina non si limita soltanto al finanziamento dei piani di spesa pubblica del governo, ma anche ai programmi di ristrutturazione dell’intero sistema economico nazionale, avendo l’istituto appoggiato le iniziative di nazionalizzazione del settore pensionistico (niente di eccessivamente anormale o sconvolgente perché anche in Italia o in Germania gli enti di previdenza, l’INPS e ilDeutsche Rentenversicherung, sono pubblici e nessuno hai mai gridato allo scandalo, accusandoci di statalismo) e delle maggiori imprese di estrazione petrolifera, come nel caso della YPF che prima era in mano alla spagnola Repsol. Queste operazioni del governo argentino sono state necessarie non solo per garantire ai cittadini l’erogazione dei servizi essenziali e la proprietà pubblica delle risorse strategiche, ma anche e soprattutto per difendersi dall’ostilità dei mercati finanziari e dal mancato afflusso di capitali esteri: se i profitti delle multinazionali straniere della finanza e del petrolio se ne vanno all’estero e contemporaneamente nessuno porta nuovi capitali, è chiaro che in assenza di queste drastiche scelte di riappropriazione a tappe forzate delle primarie risorse finanziarie e naturali, l’Argentina sarebbe stata stretta in breve tempo in una nuova morsa dell’indebitamento estero. A parte che bisogna ancora capire cosa ci sia di tanto immorale e sacrilego (agli occhi dei funzionari del FMI e degli squali di Wall Street naturalmente, non dei nostri) nel garantire ai cittadini di uno stato democratico e civile la continuità di erogazione della pensione, dell’elettricità, del gas, del carburante, visto che le privatizzazioni hanno storicamente arrecato più abusi, inefficienze e rendite di posizione, che reali vantaggi per i consumatori. E poi, non è umanamente più giusto e razionale che i profitti ricavati dalle risorse naturali di un territorio vengano redistribuiti tra i cittadini di quel paese, invece di arricchire i forzieri di pochi soggetti privati e persino stranieri?

Domande davvero ingombranti e improrogabili, a cui l’Argentina ha già risposto con fermezza, mentre i nostri governanti farlocchi e mercenari si ostinano ad abbozzare risposte approssimative e balbettanti, non più accettabili come chiusura definitiva e conclusiva del discorso. Si tratta dunque di quel radicale cambio storico di paradigma di cui abbiamo accennato all’inizio, che l’Argentina sta perseguendo con coraggio e determinazione e ha già messo in crisi parecchie volte le vecchie e sclerotizzate plutocrazie occidentali, che ancora hanno in patria la necessaria forza politica e finanziaria per tenere sotto scacco interi governi, sindacati, mezzi di informazione, opinione pubblica. Ma probabilmente il ribaltamento più interessante e rivoluzionario riguarda appunto lo stesso ruolo della banca centrale, che in Occidente riveste obblighi di tutela degli interessi privati e di stabilità dei prezzi, mentre in Argentina ha più decisamente intrapreso la strada della lotta alla disoccupazione e alla povertà, del sostegno all’economia reale, della stabilità finanziaria nel suo complesso, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta solo un tassello importante ma non prioritario. E i risultati raggiunti sembrano fino ad oggi premiare tutte le scelte fatte dalla banca centrale argentina perché la disoccupazione è scesa dal devastante 54% del 2001 all’8,3% (meno di Italia e Stati Uniti, e nulla in confronto ai livelli occupazionali e ai disagi sociali di Spagna e Grecia), il salario minimo garantito è cresciuto di ben otto volte, il PIL è in continua ascesa, il debito pubblico è diminuito dal 166% al 48%, gli interessi sul debito sono passati dal 21,9% al 6% del bilancio, il tasso di povertà è crollato dal 45% al 14%, con la povertà estrema ben inferiore al 7% (vedi grafico sotto). Dati entusiasmanti che fanno impallidire gli inqualificabili governi del rigore e dell’austerità disseminati in tutta Europa, in cui questi indici di prestazione economica e sociale sono tutti inesorabilmente e drammaticamente in caduta libera.


L’unica vera incognita in questa carrellata di successi di politica economica è il dato sull’inflazione che secondo fonti governative sarebbe intorno al 10% annuo, mentre secondo i calcoli degli analisti del FMI avrebbe già sforato il 25%. Ed è proprio su questa interminabile diatriba riguardo ai tassi di inflazione e di crescita che è natol’acceso scontro al vertice fra le due Cristine (descritto magistralmente dal grande Sergio di Cori Modigliani sul blog Libero Pensiero). La battagliera presidentessa argentina risponde colpo su colpo all’algida e inflessibile direttrice del FMI Christine Lagarde, che proprio in questi giorni ha estratto il primo cartellino giallo nei confronti dell’Argentina in attesa di ricevere dati economici più affidabili entro dicembre, ottenendo in tutta risposta la pronta replica di Cristina Kirchner: “il mio paese non è una squadra di calcio. È un paese sovrano e, come tale, non ha intenzione di accettare una minaccia“. La situazione insomma è abbastanza compromessa e surriscaldata, ma in questa contesa cruciale per il destino e il significato stesso della sovranità democraticadi una nazione, l’Argentina per nostra fortuna non intende arretrare di un passo, potendo contare sull’appoggio degli altri paesi sudamericani alleati e facendo da apripista per tutti quegli stati non più sovrani che vorrebbero magari in un prossimo futuro svincolarsi dalla stretta mortale del FMI e dell’Unione Europea (sono la stessa cosa, perché uno è il corollario dell’altra e viceversa), come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia. In effetti, numeri alla mano, basterebbe solo mettersi d’accordo su quali beni e servizi considerare all’interno del paniere come base di calcolo dell’inflazione e il discorso sarebbe chiuso univocamente, anche se rimarrebbe ancora aperta la questione dell’aumento fittizio dei prezzi di alcuni prodotti agricoli ed alimentari dovuto alla speculazione finanziaria e alle scommesse sui derivati future
 
Fra l’altro, come ha già dimostrato l’ottimo Giovanni Zibordi sul sito Cobraf, si potrebbe procedere anche ad uncalcolo indiretto dell’inflazione tramite il tasso di cambio delle valute nazionali in un regime di cambi flessibili, dato che tale rapporto riflette più o meno i livelli relativi dei prezzi interni ai due paesi presi in esame. A parte infatti le compravendite di moneta che avvengono a titolo puramente speculativo sui mercati valutari, un residente di un paese cambia la sua valuta in una valuta estera solo quando deve comprare dei prodotti da importare da quel dato paese e quindi lo stesso tasso di cambio delle due divise si allineerà in un certo senso al prezzo dei prodotti che verranno scambiati nei flussi incrociati fra i due paesi: più alto sarà il differenziale di inflazione del primo paese rispetto al secondo e maggiore sarà la svalutazione della sua moneta rispetto alla moneta del secondo paese, perché a parità di volumi di merci scambiate sarà più elevata l’offerta di moneta del paese più inflativo rispetto a quella del paese meno inflativo. Utilizzando questo semplice meccanismo, se confrontiamo il valore iniziale di cambio nel 2002 di 3 pesos per 1 dollaro con quello attuale di 4,7 pesos per un 1 dollaro avremo una svalutazione complessiva del peso del 56% rispetto al dollaro, e ricavando nel periodo considerato un’inflazione media negli Stati Uniti pari al 2,5%, avremo che l’inflazione media annua in Argentina in questi ultimi dieci anni sarebbe stata intorno all’8,1%, ben lontana dai picchi del 25% annui stimati dal FMI. Questo è lo stesso motivo per cui oggi possiamo dire con pochi margini di errore che l’uscita dall’euro della Grecia comporterebbe una svalutazione del 70% della nuova dracma nei confronti dell’euro, perché la somma dei suoi differenziali di inflazione rispetto alla media europea porterebbe a questo risultato. Mentre per la medesima ragione, a prescindere dai numeri catastrofici e dagli allarmismi ingiustificati sparsi a caso dalla propaganda per terrorizzare la gente, la svalutazione della lira sarebbe intorno al 20%. I numeri non sbagliano, mentre le voci di popolo sono e rimarranno sempre voci di popolo.

Ma a parte i semplici strumenti analitici dell’economia che porterebbero a smontare la tesi del FMI e tralasciando per il momento il fatto che questi conteggi manterrebbero sempre un certo grado di approssimazione per la solita storia della differenza sostanziale di calcolo dell’inflazione negli Stati Uniti e in Argentina, la faccenda è più prettamente politica, morale, filosofica che tecnica. Quello che l’Argentina sta cercando di dimostrare al mondo intero è che l’inflazione non può essere considerato l’unico parametro di valutazione dello stato di salute e benessere di un paese, perché ne esistono molti altri, primi fra tutti i dati sull’occupazione e la povertà, e su questo versante non ci sono dubbi che l’Argentina sia un paese virtuoso perché sta utilizzando tutti gli strumenti fiscali e monetari a disposizione nel solo interesse del bene del suo popolo. Mentre al contrario, l’Europa con la sua maniacale e ossessiva fissazione sul dogma della bassa inflazione di derivazione monetarista e neoliberista, sta portando alla deriva la stabilità sociale, inasprendo i conflitti ecreando immense sacche inferocite di disoccupati e nuovi poveri

Per capire meglio questo concetto, sarebbe opportuno rileggere con molta attenzione le parole del giovane economista argentino Ivan Heyn, morto suicida in un albergo a Montevideo a dicembre scorso in circostanze sospette, dopo aver partecipato “guarda caso” ad un turbolento incontro con i funzionari del FMI: “Che cosa me ne importa a me di avere un’inflazione al 3% come avete voi in Europa essendo infelici tutti, se io posso dare felicità alla mia nazione con un’inflazione al 30%? Lo so da me che va abbassata, ho studiato economia anch’io. Lo faremo. Ma lo faremo soltanto quando ci saremo ripresi tutti. Non prima. La felicità ha valore soltanto se può essere condivisa collettivamente, è una teoria economica, questa, e mi meraviglio che lei che viene dal Primo Mondo non lo sappia. La felicità per pochi privilegiati, non è vera felicità, è avidità bulimica. E’ un peccato mortale. Lo sa anche il papa. E noi siamo cattolici” (riferimento tratto sempre dal blog di Sergio di Cori Modigliani, che conosce molto bene come vanno realmente le cose in Argentina avendoci vissuto per parecchi anni). Una dichiarazione molto simile per certi versi agli illuminanti e memorabili discorsi dell’indimenticato presidente partigiano Sandro Pertini, quando diceva che un popolo povero, affamato, poco istruito, privo di giustizia sociale non può essere libero e la libertà è il maggiore valore fondante di una democrazia.

E’ chiaro che in una fase di crescita economica tumultuosa come questa, il dato secco dell’inflazione passa in secondo piano rispetto ai parametri da cui può eventualmente scaturire un’impennata improvvisa dell’inflazione, che malgrado tutti i tentativi diffamatori e lesivi in Argentina non c’è ancora stata: livello di piena occupazione, saturazione della capacità produttiva,politiche salariali troppo espansive, aumento delladomanda aggregata non più corrisposto da un contemporaneo aumento dell’offerta aggregata, mancanza di controllo sui prezzi, squilibri permanenti nelle partite correnti con l’estero. Siccome l’Argentina è ancora ben lontana dal raggiungimento di questi traguardi o fenomeni tipici della fase finale di un ciclo economico, ecco che il problema dell’inflazione per tutti i funzionari del governo e della banca centrale è in realtà un falso problema. E la grintosa governatrice del Banco Central Mercedes Marco del Pont (foto sopra: ogni paese ha le donne di potere che si merita, noi purtroppo abbiamo la Bindi, la Santanchè, la Tarantola e la Fornero) può orgogliosamente dichiarare che approvando ad aprile scorso la nuova Carta Organica, l’istituto sarà legato a doppio filo con le politiche del governo rinunciando alla pretesa di autonomia che non porta a nulla, tranne alla deflazione e recessione perenne. E secondo il nuovo statuto la missione primaria e fondamentale della banca centrale argentina non sarà soltanto “preservare il valore della moneta ma includerà anche lo sviluppo economico con giustizia ed equità sociale, l’occupazione e la stabilità finanziaria. Un vero schiaffo di sfida nei confronti di tutti i principi antidemocratici e i valori antiumani su cui si è fondata nel tempo la supremazia schiacciante e scriteriata della finanza rispetto alle istanze razionali ed etiche degli stati ancora sovrani di gestire l’economia in modo sostenibile e solidale:

1)   Lo sviluppo economico non piace alla finanza, perché quando i redditi si espandono, gli affari vanno bene, i debitori pagano i creditori, è difficile mettere in atto strategie di espropriazione di ricchezza ed estrazione di valore dal basso verso l’alto

2)   La giustizia e l’equità sociale è una vera bestemmia per la finanza, che ha costruito le sue fortune sulla più diseguale redistribuzione e concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi oligarchi che il mondo abbia mai conosciuto
                       
3)   L’occupazione non è mai stato un reale obiettivo della finanza, visto che, a parte gli istantanei guadagni speculativi sulle aspettative e sui dati forniti periodicamente dal governo, produce una maggiore spinta al rialzo dei salari dei lavoratori e minori rendimenti e profitti per gli investitori
 
4)   La stabilità finanziaria non è mai stata una condizione propizia per chi vive di rendita e di speculazione, dato che riduce la volatilità dei titoli e la possibilità di fare grandi profitti in poco tempo.

Non ci stupisce quindi tutta questa ostilità nei confronti dell’Argentinasospinta e sobillata dagli ambienti che contano di Wall Street, della City di Londra, di Berlino, di Parigi, di Hong Kong, di Tokyo. Una carta di intenti di questo tipo avrà fatto sussultare sulla sedia migliaia di manager e dirigenti di grandi gruppi finanziari, che credono ancora per abitudine e convenienza che la banca centrale sia soltanto un ente privato al loro servizio, il cui unico scopo sia quello di fornire quantità illimitate di liquidità a comando e di mantenere nel contempo un alto valore e potere di acquisto degli immensi patrimoni accumulati. Un’istituzione chiusa e relegata al solo settore bancario e finanziario, come un vero e proprio Fortino Militarizzato di Ricchezze, che ha l’obbligo categorico di frenare qualunque assalto della società civile, dello Stato e della cosiddetta economia reale, ogni volta che questi ultimi rivendicano il sacrosanto diritto di avere i mezzi di pagamento necessari per un corretto funzionamento dei flussi commerciali e una migliore redistribuzione delle risorse finanziarie.

Non a caso le riviste patinate più vicine al mondo finanziario hanno subito inserito la governatrice argentina Del Pont nella lista dei 10 peggiori banchieri centrali del mondo, basandosi evidentemente soltanto su preconcetti, pregiudizi o semplice antipatia personale perché in verità dati reali che confermino inconfutabilmente l’incompetenza e inefficienza della funzionaria ancora non ne esistono. La solita accusa meccanica e infondata che l’eccessivo ricorso alla creazione di nuova base monetaria, volgarmente chiamata “stampa di moneta”, porterà prima o dopo all’iperinflazione della Repubblica di Weimar o dello Zimbabwe dimostra invece una totale ignoranza dei meccanismi moderni di circolazione della stessa base monetaria (formata per il 97% da riserve bancarie elettroniche e solo per il restante 3% da banconote e monete metalliche), che è praticamentetutta interna al circuito interbancario, emergendo in superficie soltanto quando le banche concedono prestitiai clienti o i clienti stessi prelevano allo sportello questi soldi virtuali ottenendo in cambio banconote. Solo così le famose banconote, che passando rapidamente di mano in mano farebbero aumentare la velocità di circolazione del denaro e innalzare di conseguenza l’indice dei prezzi al consumo, avrebbero un reale effetto inflativo, mentre in caso contrario l’unico modo in cui un banchiere centrale potrebbe assumersi la diretta responsabilità di aumentare la quantità di moneta circolante e produrre inflazione è quello di lanciare banconote da un elicottero. Con buona pace di tutti gli incalliti e retrogradi monetaristi, neoliberisti, devoti della sacralità dell’autonomia, della bassa inflazione e della rarefazione monetaria, il sistema monetario moderno funziona così e prima o dopo dovranno farsene una ragione. E’ l’inflazione a trainare la maggiore offerta di moneta da parte della banca centrale e non viceversa, così come è sempre l’inflazione ad influenzare in prima battuta la svalutazione della moneta e non viceversa (in seconda e terza battuta rientrano invece gli squilibri delle partite correnti con l’estero e le compravendite di moneta sui mercati valutari).

L’esperienza del Canada, che ha una banca centrale simile a quella argentina autorizzata a supportare direttamente il governo e a partecipare alle aste primarie di collocamento dei titoli di stato (come accadeva in Italia prima del divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia del 1981), è abbastanza emblematica: malgrado la banca centrale abbia da sempre “stampato” moneta in accordo con il governo, in Canada, dal dopoguerra ad oggi, non abbiamo mai assistito  a fenomeni iperinflazionistici. In sistemi invece meno solidali nella collaborazione con i governi e più orientati a foraggiare illimitatamente i circuiti bancari privati, come quello degliStati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, le rispettive banche centrali hanno allagato il mercato interbancario conimmense iniezioni di liquidità, attraverso le cosiddette operazioni di quantitative easing, senza che questo diluvio abbia aumentato di un centesimo di punto percentuale l’inflazione percepita. Una simile circostanza è giustificata dalla semplice considerazione che queste quantità incalcolabili di riserve bancarie elettroniche sono appunto riserve e a parte l’irrisoria percentuale di richieste di conversione in banconote circolanti da parte dei clienti delle banche, il loro destino è già segnato: vengono custodite gelosamente nei conti di deposito dei singoli istituti presso la banca centrale in qualità di asset infinitamente negoziabile e liquido, trasferite senza sosta da un conto all’altro in cambio di titoli, utilizzate per compensare i pagamenti incrociati fra una banca e l’altra, senza mai vedere la luce del sole. 

L’unico modo, ripetiamo, per aumentare la massa di moneta circolante, ovvero i nostri depositi bancari e le banconote, è una maggiore attività creditizia delle banche commerciali, che come sappiamo può avvenire solo quando esiste una reale domanda di prestiti del mercato, sono verificate le garanzie fornite e i parametri di rischio del debitore, sono rispettati i requisiti patrimoniali della banca come richiesto dagli accordi bancari internazionali di Basilea. E sappiamo purtroppo per esperienza che quando l’attività creditizia delle banche è fuori controllo (boom), non solo ci sono rischi incombenti di inflazione (magari limitati ad un solo settore, come quello immobiliare), ma anche reali possibilità di nascita di bolle speculative che coinvolgono a cascata tutti gli altri settori, gli altri paesi fino a creare le premesse di interminabili crisi finanziarie globali. Così come sappiamo che quando l’attività creditizia si riduce drasticamente (crunch), la scarsità di moneta circolante che ne deriva può creare disastrosi effetti di deflazione dei prezzi, dei salari e depressione di un’intera economia. Gli enti governativi di vigilanza, in perfetta sintonia con le politiche monetarie di controllo dei tassi di interessi della banca centrale, dovrebbero essere efficienti e tempestivi abbastanza per mantenere un dosaggio equilibrato e stabile dell’attività creditizia, intervenendo direttamente solo in caso di evidenti deviazioni sia nell’uno che nell’altro verso.        

L’Argentina quindi, alla faccia di tutti i suoi detrattori, parte avvantaggiata sul versante della prevenzione dell’inflazione (e deflazione) anche per questo motivo: ha un settore bancario molto ridotto e in gran parte nazionalizzato, un’attività creditizia scarsa e frammentaria, un controllo di vigilanza molto preciso e puntuale da parte della sua banca centrale. Con queste premesse, è difficile che ci possano essere nell’immediato aumenti imprevisti di moneta circolante, eccessi di debito privato e quindi eventuali pericoli di inflazione, che non siano direttamente collegabili alla sola spesa pubblica dello stato, ed è forse questo ilmaggiore fattore che ha determinato il successo economico dell’Argentina: non la statalizzazione massiccia, ma la concentrazione dei flussi finanziari all’interno di canali molto esegui, visibili e facilmente controllabili. Al contrario di ciò che accade in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, non esistono in Argentina grandi gruppi finanziari e gigantesche corporazioni predatorie, fondi pensioni privati, banche ombre (shadow banks), banche d’affari, banche d’investimento specializzate in strumenti derivati, che possono soggiogare lo stato, orientare le scelte politiche e reprimere a loro vantaggio le richieste dell’economia reale sempre più allo sbando. Come dimostrato in un recente studio dal titolo già di per se molto eloquente “Too much finance?”, scritto da tre importanti economisti, tra cui l’italiano Ugo Panizza, per conto dello stesso FMI, non esiste uncollegamento diretto fra le dimensioni del settore finanziario e la crescita economica di un paese, anzi i dati dimostrano che aree con imprese finanziarie molto sviluppate, aggregate e ramificate spesso soffrono di prolungati periodi di recessione, mentre regioni in cui il settore finanziario è trascurabile, limitato e controllato sono protagoniste di altrettante fasi di espansione economica. Un’evidenza empirica che ancora una volta da ragione alle scelte intraprese dall’Argentina e dovrebbe mettere in guardia tutti i ministeri dell’economia e delle finanze, gli enti di vigilanza e le banche centrali sparse nel mondo.
L’unico serio rischio che corre l’Argentina è quello dell’isolamento, promosso dallo stesso FMI e dal boicottaggio delle nazioni neoliberiste europee, asiatiche, americane, che a lungo termine può compromettere la stabilità dei conti esteri. Ma anche qui la combattività del governo e della banca centrale, ispirata forse dal temperamento delle due donne al comando, non mostra segni di cedimento e in questi ultimi anni l’Argentina ha addirittura raddoppiato le sue riserve monetarie in valuta estera, che saranno utili per difendere o allentare in via preventiva la forza di cambio della valuta nazionale in caso di attacchi speculativi e per evitare ulteriori fughe di capitali all’estero, dovute principalmente ai timori di eccessiva fragilità della divisa nazionale. Considerando l’attuale situazione di equilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l’Argentina può dormire ancora sonni tranquilli, anche se prima o dopo parte delle sue riserve valutarie dovranno essere destinate al pagamento delle rate del debito estero congelato alle fasi immediatamente successive la dichiarazione di default del 2001.
Nonostante però tutte le cupe previsioni di crollo imminente, l’ultimo avviso ai naviganti potrebbe essere questo: non abbiate paura, panico, timore di osare, di capire, il Faro argentino rimane sempre lì, invisibile soltanto agli occhi di chi non lo vuole vedere. E un giorno non tanto lontano, se non verremo sospinti dalla tempesta sulle terre gelide dell’Antartide, è possibile che la sua luce intensissima indichi la via agli sparuti naufraghi dell’Occidente e a tutti coloro che sono ancora accecati dai bagliori fatui della propaganda di regime. In fondo, come dicono i Maya, il Giorno della Fine del Mondo si sta avvicinando a grandi passi e per evitare strane sorprese, sarebbe meglio prepararsi per tempo, prendendo spunto da chi è già in salvo e al sicuro.

Ott 1, 2012 - Abuso di Potere, Bancocrazia, Economia, Informazione, InGiustizia, Lavoro, Truffe    Commenti disabilitati su Furto INPS (il maggior azionista EquiTaglia)…

Furto INPS (il maggior azionista EquiTaglia)…

HAI VERSATO 19 ANNI DI CONTRIBUTI ALL’INPS? LI HAI PERDUTI !!!
INPS, IL “FURTO ” SILENTE

Migliaia di lavoratori versano i contributi senza poter arrivare alla pensione. Soldi regalati all’ente 

Sono tantissimi ma l’Inps non li quantifica o per lo meno si rifiuta di farlo. Parliamo delle Posizioni silenti, cioè quelle posizioni iscritte all’Inps che hanno versato contributi senza raggiungere i requisiti minimi previsti dalla legge per andare in pensione. Per la pensione di vecchiaia, infatti, legata all’età anagrafica (66 e 67 anni con la riforma Fornero) servono almeno 20 anni di contributi versati nella medesima cassa previdenziale (all’Inps, all’Inpdap, all’Inpgi, etc.). Il problema dei contributi silenti si pone quando un contribuente non raggiunge quel requisito dando origine a quella che sindacati ed esperti previdenziali definiscono senza giri di parole una truffa, un furto.

Mettiamo il caso, infatti, di chi abbia potuto versare contributi solo per 18 o 19 anni: senza raggiungere il requisito minimo di 20, quegli anni non daranno vita ad alcuna pensione. In realtà, si tratta di un caso limite perché essendo molto ridotto il margine di differenza è possibile colmare il vuoto ricorrendo alla contribuzione volontaria cui si può accedere con un minimo di 5 anni di contribuzione versata. Questa si calcola sulla base dell’ultima retribuzione percepita e quindi sale in relazione a quella. Stiamo comunque parlando di cifre consistenti: su uno stipendio di 1300 euro si versa fino a 8000 euro all’anno. Se gli anni da colmare, quindi, ammontano – come nella maggior parte dei casi – a 7, 9 o anche di più si pagano cifre impossibili.

“In questa condizione si trovano moltissime donne – spiega Luigina De Santis, esperta previdenziale dell’Inca- Cgil – perché sono quelle dall’attività lavorativa più incostante e frammentata”. Chi ha versato, ad esempio, 12 anni di contributi, quando arriva all’età per la pensione non si ritrova nulla in mano. “E’ un furto. E’ scandaloso e lo è ancora di più il fatto che l’Inps non dia le cifre esatte di questo fenomeno: si fanno morti e feriti ma non li si vogliono dichiarare” commenta ancora De Santis. Sul problema del silenzio Inps e della indisponibilità a fornire i dati batte anche il deputato radicale Maurizio Turco che sta preparando un’iniziativa eclatante: “Presenterò a breve un progetto di legge per istituire una Commissione di inchiesta con poteri giudiziari per dire una cosa chiara: se l’Inps non ci consegna i dati manderemo i carabinieri a prenderli”. Non avendo a disposizione i dati è molto difficile fare una stima. E infatti di stime non ce ne sono. Si possono fare delle valutazioni induttive. Ad esempio, una fonte rilevantissima di posizioni silenti è data dai contributi versati dai lavoratori immigrati che, spesso, ritornano nel loro paese e, se vogliono recuperare quanto versato in Italia, devono disporre di adeguate convenzioni internazionali e attivarsi per fare regolare domanda. Gl immigrati iscritti all’Inps sono 2,7 milioni (dati al 2007) e i contributi che li riguardano ammontano a circa 8 miliardi di euro. Altre stime calcolano in circa 600 mila le donne casalinghe che hanno pochi anni di contribuzione all’attivo e così via.

Formalmente la riforma Fornero dovrebbe sanare la ferita con il sistema contributivo. Infatti, con questo nuovo sistema di calcolo tutti i contributi versati saranno accumulati per calcolare una pensione finale e, se non si raggiunge il requisito minimo dei 20 anni, si potrà comunque andare in pensione a 70 anni oppure se la stessa supera di 1,5 volte l’assegno sociale. “In ogni caso c’è il limite dei 5 anni di contributi – commenta però De Santis – e se non si raggiungono, si regalano all’Inps”. “E poi, aggiunge, chi può vantare un importo pari a 1,5 volte l’assegno sociale (tra i 7 e gli 800 euro) con meno di 20 anni di contributi è solo chi ha avuto retribuzioni molto alte”. Inoltre i casi sono destinati a crescere con il sistema delle ricongiunzioni onerose deciso dal governo Berlusconi nel 2010 e avallato dall’attuale governo. In questo caso ricadono quelle posizioni previdenziali aperte in istituti diversi. Un’insegnante che abbia lavorato in una scuola privata, ad esempio, per un certo numero di anni e poi in una pubblica per il resto della sua vita lavorativa avrà una parte di contributi all’Inps e un’altra parte all’Inpdap. Per riunificarli (tecnicamente: ricongiungerli) dovrà pagare una somma molto elevata e se non la possiede utilizzerà la posizione più favorevole lasciando “silenti” gli altri contributi. Che restano lì, a disposizione dell’Inps che, ovviamente, li utilizzerà – lo sta già facendo –per pagare le pensioni in essere. “Le ricongiunzioni onerose sono uno scandalo” aggiunge Luigina De Santis. Intervenendo su questo nella trasmissione Report su Rai3, “la ministra Fornero ha detto cose inesatte perché le ricongiunzioni non servono ad avere pensioni più alte ma semplicemente commisurate ai contributi versati”.

In realtà anche prima della legge del 2010 le ricongiunzioni verso regimi previdenziali più favorevoli (ad esempio dall’Inps verso l’Inpdap) erano onerose ma non quelle verso il regime dell’Assicurazione generale obbligatoria (Ago) gestito dall’Inps. Ora si paga anche questo e ci si può vedere richiedere importi di 100 mila o anche 200 mila euro. Ma Fornero ha invitato a utilizzare un altro sistema, che invece è gratuito, la totalizzazione dei contributi. “Ma è un sistema con il quale si sceglie di entrare integralmente nel sistema contributivo anche se si ha ancora diritto a una parte di retributivo (doppio sistema entrato in vigore nel 1996 con la riforma Dini, ndr.). E favorisce solo i salari molto alti che da quel tipo di conteggio vengono particolarmente valorizzati. Ai salari più bassi la pensione viene tagliata”.

Fonte:ilfattoquotidiano.it
Set 30, 2012 - Abuso di Potere, Bancocrazia, Economia, Informazione, InGiustizia, Politica    Commenti disabilitati su Crisi economica o SCONTRO tra due filosofie di Vita e di visione economica Globale?

Crisi economica o SCONTRO tra due filosofie di Vita e di visione economica Globale?

La guerra tra le due Cristine e l’impatto sull’Europa. Soprattutto sull’Italia.


Sudamerica, media e diritti politici su un argomento sottaciuto.

In Gran Bretagna gli hanno dato un nome preciso e ormai la seguono come se fosse una telenovela nella sezione geo-politica: “The Christines at war”,la guerra delle Cristine, che sarebbe una fiction a puntate davvero impossibile non seguire.
Ci siamo anche noi, dentro, naturalmente, e il nostro ruolo in questa telenovela non è certo dalla parte dei buoni. La Storia ci ha messo nella situazione di dover interpretare il ruolo di quei personaggi che quando entrano in scena, dopo le prime due battute, ci spingono a dare una gomitata al nostro compagno di poltrona per commentare “questo mi sa che fa una brutta fine”. Non siamo certo gli eroi di questa fiction iper-realista.
La nuova puntata (vera chicca per gourmet) si è svolta in un sontuoso teatro internazionale: la East Coast degli Usa, tre giorni fa uno scambio di battute al fulmicotone tra la segretaria del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, dalla sede di Washington –reduce da un incontro ufficiale con il ragionier vanesio- la quale, infantilmente ha minacciato l’Argentina usando di proposito una metafora calcistica “per il momento sto mostrando a quella nazione il cartellino giallo; ma c’è una inderogabile scadenza che è il 10 dicembre 2012. Superata quella data scatterà automaticamente il cartellino rosso e l’Argentina verrà espulsa dal Fondo Monetario Internazionale”.  La presidente argentina si trovava in quel momento a un tiro di schioppo, stava a New York, al palazzo dell’Onu. Da aggiungere che (gli sceneggiatori sono abili professionisti di mestiere) nell’esatto momento in cui madame Christine minacciava la senora Cristina, la presidente stava parlando all’assemblea dell’Onu a Manhattan perorando la causa dell’indipendenza del Sud America e chiarendo –con gravi toni minacciosi ben coperti dalla consueta retorica diplomatica- che il teatro internazionale geo-politico non è più quello degli anni’70 e che la grande stagione dello schiavismo colonialista è tramontata. Finito il suo intervento, i suoi segretari le hanno comunicato immediatamente l’esternazione della sua omonima francese. E la presidente Kirchner ha dichiarato subito: “L’Argentina è una grande nazione. Ma prima ancora è una nazione grande. Abbiamo un vasto territorio baciato dalla fortuna naturale. Abbiamo risorse nostre, che ci consentiranno la salvaguardia della nostra autonomia e della nostra indipendenza. Ma soprattutto siamo un paese orgoglioso che ci tiene alla propria dignità. Vorrà dire che staremo fuori”.
Chi non ha seguito tutte le puntate della telenovela (ci sono stati anche dei morti, come il giovane economista Ivan, in una storia che ho  raccontato mesi fa) forse non può seguire in maniera palpitante questo fronte bellico della Guerra Invisibile e potrebbe non capire di che cosa si tratta. Ha a che vedere con la Gran Bretagna, l’Italia, la BCE e la loro relazionalità con il Sud America. Ma soprattutto ha a che vedere con lo scontro tra l’interpretazione keynesiana e friedmaniana dell’economia e con lo scontro dichiarato tra l’interpretazione social-progressista dell’esistenza quotidiana e quella liberista conservatrice. Questo duello è stato riportato, dibattuto e commentato in tutto l’occidente. Neanche a dirlo, Italia esclusa. I servizi della, peraltro, brava Daniela Bottero, corrispondente della Rai di New York, parlavano  del nuovo ipad5, di come a New York si vive l’incipiente autunno,  ammaliandoci con la descrizione variopinta della scelta di Mario Monti relativa a quali ristoranti andare, a quali club partecipare e a quali inviti aderire. In Gran Bretagna, invece, (il vero cuore del problema) a questa puntata hanno dato un risalto talmente forte che la BBC ha scelto di destinarle ben cinque piattaforme mediatiche diverse: televisione di stato, radio, sito on line, diretta streaming, l’intera stampa cartacea mainstream. Per evitare di essere subissato dai consueti commenti della serie “dacce ‘sto link”, in un post scriptum, in copia e incolla, trovate l’articolo preso dal sito on line della BBC, sintetico ma esaustivo.
Qual è il contenzioso?
Eccolo esposto in maniera molto semplice e sintetica:
Il Fondo Monetario Internazionale sostiene che, sulla base dei propri dati a disposizione, l’inflazione in Argentina ha raggiunto la cifra del 30% in seguito alla irresponsabile azione di emissione di carta moneta da parte del Banco de la Naciòn perché in Argentina è stata scelta (il termine usato è “irresponsabile”) la strada degli investimenti in infrastrutture, salvaguardia del territorio idro-geologico, salario minimo garantito, credito agevolato alle imprese, protezionismo (con aliquote altissime praticate a tutte le multinazionali che in Argentina producono ma non investono il loro profitto in attività locali per favorire la occupazione)  e aumento del proprio disavanzo di bilancio al fine di potenziare istruzione pubblica, ricerca scientifica e innovazione tecnologica. Un’inflazione così alta comporta il rischio di “implosione del sistema economico” e quindi il resto del mondo economico, per salvaguardarsi, deve prendere le distanze da un modello economico così disastroso, definito “ormai fuori controllo” e quindi o l’ Argentina si adegua oppure viene espulsa. Una volta fuori, immediatamente verrà chiesto il saldo di tutti i loro bonds, il pagamento di tutte le transazioni internazionali di merci, e l’intero sistema finanziario del pianeta dichiarerà “inagibile” ogni forma di finanziamento all’Argentina, la quale, inoltre, dovrà immediatamente abolire gli investimenti e lanciarsi in una poderosa manovra di austerità, rigore e stretta creditizia, pena la cancellazione dei contratti internazionali di import-export.
Il governo della Repubblica Argentina, invece, sostiene che la propria inflazione è intorno al 9%. E dichiara che i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale non sono dati veri, perché le aziende di rating che hanno fornito le informazioni sono agenzie private finanziate –fatto questo noto- da J.P.Morgan, Citibank e Societè Generale, che sono parte in causa e vogliono destabilizzare l’intero Sud America per avere la possibilità di poterci speculare sopra. L’Argentina, inoltre, ritiene che l’ FMI “ha lanciato un sistema di punizione” nei confronti delle nazioni dotate di un sistema finanziario economico centrale che vieta (come appunto nel caso dell’Argentina) ogni attività finanziaria speculativa sui derivati, perché gli investimenti finanziari sono consentiti solamente su titoli e aziende che producono merci reali. Come ultima considerazione, l’Argentina ritiene che il Fondo Monetario Internazionale abbia come compito quello di monitorare la situazione economica delle nazioni senza dover mai intervenire sulla qualità delle politiche economiche nazionali e locali essendo il principio dell’autodeterminazione dei popoli un valore riconosciuto dalla carta internazionale dell’Onu in data 1948.
Queste sono le due posizioni.
Poiché non si tratta di Juventus-Roma (forza capitano) dove il tifo è lecito, ciò che conta, in questo caso, è comprendere di che si tratta. Ma soprattutto che cosa accade se vince una o l’altra delle due Cristine.
I rapporti di forza non sono affatto come istintivamente si può credere, ovvero Davide contro Golia, perché c’è un piccolo paese, laggiù nel polo sud, che conta poco o nulla, e da solo si è messo contro i poteri forti. Questa è la retorica perdente terzomondista che vive di ideologia e favole sentimentali.
Si tratta di un poderoso braccio di ferro politico, che ci riguarda tutti. Italia in prima fila.
(e vi spiegherò più avanti il perché).
Chi vincerà? Non lo so. Però so chi voglio che vinca. E so, con matematica certezza, che cosa accadrà sia nell’uno che nell’altro caso.
Personalmente parlando (qui è il mago che si esprime) penso che abbia molte più chance l’Argentina che il Fondo Monetario Internazionale. Il bello è che lo pensano anche i britannici, altrimenti non avrebbero dato un così ampio risalto alla vicenda.
Christine Lagarde fa la voce grossa a Washington, insieme a Monti come partner, perché si sente sicura della vittoria, e a mio avviso sbaglia di grosso. La sua vittoria  ha queste tre tappe: il 7 ottobre a Caracas (elezioni politiche in Venezuela, paese fondamentale per l’intero occidente in questo momento); il 6 novembre in Usa (elezioni politiche presidenziali); il 15 novembre, data in cui la troika consegnerà il proprio rapporto sullo stato impietoso della Grecia; a quel punto la nazione ellenica verrà protestata, spinta fuori dall’euro e surprise! invece del contagio, non accadrà un bel nulla se non uno scossone della durata di 48 ore. Si mostrerà e dimostrerà, pertanto, che l’euro funziona e regge ogni urto, la Grecia sprofonderà nella miseria e nell’incertezza (dimostrando che senza l’euro non c’è salvezza) e l’euro sorretta dal petrolio scontato del Venezuela, sorretta da Wall Street (che nei dieci giorni successivi alla vittoria di Romney sarà andata alle stelle con enormi guadagni di tutto il sistema bancario europeo) finalmente si potrà assestare e dare ordini al resto del mondo. Quantomeno alla parte occidentale. Questo è ciò che pensa la Lagarde.
Ma quali armi ha l’Argentina? Enormi, gigantesche. E le sta usando tutte.
Vi racconto una delle armi usate nel recente passato (finito con successo venti giorni fa) relativa a una precedente lontana puntata della telenovela dal titolo “La guerra dei limoni tra le due Crisitne” con una successiva puntata dal titolo “Coke is the real thing, baby!”.
Veniamo alla puntata dei limoni.
Quando nel 2004 l’Argentina, reduce dal suo fallimento, comincia a rimboccarsi le maniche per  l’auspicata ripresa, si avvale di diverse forme di consulenza economica, tra cui quella di un gruppo di scienziati tedeschi: per tradizione storica, i tedeschi sono di casa laggiù. Arrivano gli agronomi verdi dalla Germania, portandosi appresso la nuova tecnologia ecologica, evoluta nel campo dell’agricoltura. I tedeschi scoprono che i limoni argentini sono eccellenti. E varano un ingegnoso piano. Grazie al fatto di avere uno sterminato territorio a disposizione, il governo investe una massiccia quantità di denaro per lanciare un sistema di cooperative agricole occupando circa 150.000 ettari per produrre il più vasto limoneto del pianeta. Per avere il frutto ci vogliono anni, ma la tecnologia aiuta. Finalmente, alla fine del 2009, ecco i succosi limoni. Vanno al mercato internazionale. La frutta risulta seconda, per qualità, soltanto ai limoni italiani (la più pregiata specie in assoluto) con l’aggiunta del fatto che ha un prezzo di mercato inferiore del 212% ai limoni siciliani, liguri, greci, turchi, spagnoli, provenzali. I più grossi consumatori di limoni in Europa sono tedeschi e britannici, per via della loro alimentazione. Ai tedeschi servono per condire una loro insalata e i krauti di cui sono ghiotti e agli inglesi servono per spruzzare il loro piatto unico quotidiano, i celebri “fish&chips”, cartoccio composto da filetti di baccalà e patate fritte che ben si accompagnano con la pinta di birra al pub, ogni sacro giorno alle ore 17.,30. I tedeschi si avvalgono di forte sconto ma arriva anche la Coca Cola, il cui amministratore delegato, in persona, vola a Buenos Aires e firma un accordo commerciale della durata di 25 anni per avere i limoni con i quali compone la ricetta di ben 22 delle sue 30 bibite sparse in tutto il mondo. L’amministratore dichiara che il 93% dei propri limoni li prende in Argentina, il restante 7% dalla Florida. Poco tempo dopo, si passa alla soia. E arriva la Cina: contratto commerciale della durata di 50 anni; acquistano il 92% della produzione nazionale di soia (decine di migliaia di ettari coltivati sempre dai tedeschi) e 10 milioni di vacche. I bovini vengono allevati da produttori argentini nelle sterminate praterie d’altura, macellati, squartati come piace ai cinesi, incartati, messi su giganteschi aerei frigoriferi e ogni giorno  partono 50 giganteschi aerei da trasporto che portano a Pechino la carne necessaria per sfamare circa 250 milioni di cinesi. Arrivano anche i giapponesi che si prendono la produzione di acqua minerale di ben 122 ghiacciai del polo sud per un totale di 20 milioni di ettolitri al mese per 50 anni. I giapponesi bevono l’acqua argentina ma non lo sanno. Tutto ciò contribuisce a un aumento del pil argentino dell’ordine di un +5% all’anno e sarà il trampolino di lancio della loro ripresa economica. Dai cinesi, l’Argentina si fa pagare in dollari e bpt italiani; dai giapponesi in dollari e bpt tedeschi. Dai tedeschi e inglesi in euro. Ma nel 2010 la situazione geo-politica cambia precipitosamente. Dall’Unione Europea partono chiare indicazioni di andare all’attacco delle economie floride keynesiane. Per un fatto politico. La Gran Bretagna è la prima ad adeguarsi. E’ il primo atto del neo-eletto David Cameron. Non appena insediatosi, scopre che i limoni argentini –all’improvviso- non rispettano i parametri sanitari internazionali. Di conseguenza, si rivolge per protesta all’Unione Europea e Van Rompuy in persona denuncia l’accordo chiedendo una penalizzazione per l’Argentina, oltre a chiuderle l’accesso alle esportazioni internazionali. Per un mese l’Argentina protesta, soffre e si preoccupa. Dopodichè si fanno venire in mente un’ottima idea. La Kirchner personalmente scrive una lettera al quartier generale della Coca Cola ad Atlanta dove spiega alla multinazionale che dal giorno dopo non beccano più neppure un limone. Non solo. Avvalendosi della denuncia dell’Unione Europea, confortata dalle dichiarazioni di origine stampate sulle bibite della Coca Cola, si appella all’OMS chiedendo che vengano tolte dalla circolazione in tutto il continente europeo le 22 bibite che contengono limoni argentini “perché prive dei dispositivi di salvaguardia sanitaria previsti dalle convenzioni europee vigenti, visto che l’Europa sostiene che i nostri limoni non vanno bene, si deduce che non possono andare bene neppure bibite composte con i nostri limoni”. Per la Coca Cola si tratta di un danno di circa 25 miliardi di euro. Inizia un contenzioso durato ben 20 mesi, un braccio di ferro tra le due Cristine. Il finale della puntata è noto. Il presidente della Coca Cola  tranquillizza la Kirchner dicendole “ghe pensi mi”. E ci riesce. 1-0 per l’Argentina.
Fine della precedente puntata.
Quella prossima, datata 13 dicembre 2012, non si sa come andrà a finire. Ma si sa che cosa accadrà se vince la Christine francese: 48 ore dopo, l’Argentina, accettando l’espulsione, protesterà il contratto con la Coca Cola, dirà ai cinesi che staranno senza carne e senza soia; dirà ai giapponesi che staranno senz’acqua da bere; dirà ai tedeschi che non avranno più il petrolio con lo sconto. E tutta questa gente andrà a chiedere ragioni alla Christine a Parigi. L’Argentina, quindi, avrà come avvocati difensori la Coca Cola, la Cina, il Giappone, l’industria agricola tedesca.
E l’Italia?
Automaticamente fallirà la Telecom, e due giorni dopo la Enel annuncerà che la propria fattura viene triplicata. Intesa San Paolo, Banco Popolare di Milano e Mediobanca subiranno in borsa un crollo di almeno il 40% del loro valore. Perché?
Perché la Telecom è un’azienda decotta. Eppure i suoi bilanci sono buoni: è vero. Ma il profitto (che la tiene a galla) lo prende da Telecom Brasile e da Telecom Argentina, nazioni nelle quali gestisce l’intero sistema di telecomunicazioni digitali, terrestri e satellitari. Verranno subito nazionalizzate. Non solo. Verrà anche nazionalizzata subito anche l’Enel, che gestisce tutto il sistema dei servizi di erogazione di energia elettrica a Buenos Aires, in Bolivia, a Rio de Janeiro e che per la bilancia italiana è fondamentale. Inoltre, verranno messi subito all’incasso bpt italiani per un controvalore di 22 miliardi di euro, proprio alla vigilia di Natale. E se l’Italia non ha da pagare, si arrangi. Che vada a farseli dare da Christine Lagarde.
Per ridurla in sintesi, si tratta, in realtà, di una lotta squisitamente politica.
La telenovela sta tutta lì.
Non c’entra niente il business, né il commercio, né gli scambi. Proprio no.
E tantomeno l’economia.
Come ha detto con molta chiarezza la sudamericana Cristina Kirchner “io pretendo che venga rispettata la mia dichiarazione politica”. E si riferiva allo scontro micidiale a Montevideo lo scorso novembre (quando il giovane economista morì impiccato),  nel corso del quale Christine Lagarde la minacciò di sanzioni e isolamento se non cambiava politica economica. In quell’occasione la Kirchner disse: “Preferisco avere un’inflazione altissima e spropositata se so che la disoccupazione dal 34% è scesa al 3,5%; che la povertà è diminuita del 55%; che il pil viaggia di un +8% annuo; che la produttività industriale è aumentata del 300%; che c’è lavoro in Argentina, c’è mercato per tutti, e il mio popolo è molto ma molto più felice di prima, piuttosto che avere un’inflazione del 3% come in Italia, dove c’è depressione, disperazione, avvilimento e l’esistenza delle persone non conta più. E questa è un’affermazione politica. Di principio e sostanziale. Non lo ha ancora capito?”
Sembra che non lo abbia capito.
Sembra che non lo abbiano capito neppure gli italiani.
La crisi economica è uno specchietto per le allodole.
Si tratta di uno scontro micidiale politico tra due diverse modalità, totalmente contrapposte, di interpretare l’esistenza. E in questo scontro, l’economia, lo spread, ecc, sono semplicemente uno strumento di minaccia e ricatto per far passare un disegno politico di espoliazione, espropriazione e schiavizzazione degli esseri umani in Europa.
Altrimenti non si chiamerebbe Guerra Invisibile. Perché non si vede.
Non è certo un caso che la cupola mediatica, in Italia, abbia scelto di non acquistare i diritti per trasmettere le puntate della telenovela delle Due Cristine. Meglio che nessuno la veda.
Ed è meglio anche che nessuno sappia nulla dei limoni, dei verdi tedeschi, ma soprattutto che non venga né detto, né spiegato, né tantomeno mostrato, come se la passano quelle nazioni che hanno avuto l’ardire e l’ardore di dire no all’austerità, no alla sudditanza nei confronti dei colossi finanziari, ma soprattutto no ai diktat delle banche centrali.
Mentre da noi Monti & co. officiano continue messe da requiem dell’ingegno, della creatività, del lavoro e della voglia e bisogno di imprendere della nazione, da qualche altra parte del mondo si balla il tango e la milonga, e ci si sente vivi. Sono molto più poveri di noi, hanno molto meno di noi, sono molto meno ricchi di noi.
Eppure, sono molto ma molto più felici.

Non è questo, dopotutto, che conta nella vita dei popoli e delle nazioni?


Set 15, 2012 - Abuso di Potere, Bancocrazia, Economia, Finanza, Informazione, Internet, Politica    Commenti disabilitati su LA SERBIA VERSO UN NUOVO SISTEMA BANCARIO. FMI SUL PIEDE DI GUERRA

LA SERBIA VERSO UN NUOVO SISTEMA BANCARIO. FMI SUL PIEDE DI GUERRA

Il socialismo serbo riforma il sistema bancario dissociandosi dal modello europeo. Proteste da parte dell’UE e del FMI.

bancaBELGRADO – In Serbia il Governo ha capito: bisogna riformare il sistema bancario dissociandosi dal modello bancario europeo. Si dimette per protesta il governatore della Banca Centrale Serba,Dejan Soskic. Il suo mandato sarebbe scaduto nel 2016. 

dacic05 0La prima vera grande reazione politica a questa dittatura bancaria parte proprio dai Balcani, con la legge serba appena varata che limita fortemente l’indipendenza della Banca Centrale. 

 

Una notizia passata in sordina tra le notizie flash che i grandi quotidiani hanno copincollato dalle agenzie di stampa. 

La cosa ancora più preoccupante è che la notizia sarebbe stata totalmente ignorata se il Fondo monetario Internazionale (FMI) non avesse deciso di esprimere pubblicamente la sua contrarietà alla legge varata dal nuovo esecutivo guidato dalpremier socialista Ivica Dacic.

Ma la situazione serba ci riguarda da vicino, non solo perché si trova poco distante dal nostro paese, ma anche perché è situata in un polo strategico tra i paesi di confine dell’Europa stessa, non troppo distante dalla Grecia.

 

Insomma la Serbia è ormai una spina nel fianco per la BCE che potrebbe causare delle fortissime repressioni qualora venisse a compromettere l’intero sistema bancario europeo. Il rischio di contagio è infatti altissimo. Questo partirebbe dalla serbia per giungere poi in Grecia, poi in Italia e in Spagna per poi diffondersi in tutta l’Europa.

 

E dunque, quali sono le colpe di questo nuovo governo socialista Serbo? La colpa in sostanza è di aver legiferato in modo da limitare il potere della Banca centrale serba a vantaggio del paese e delle ingerenze dell’economia reale. Grazie alla nuova legge approvata questa mattina, il Parlamento serbo, guidato da un governo socialista, supervisionerà tutti i provvedimenti e le azioni della Banca Centrale serba intervenendo quando necessario. La politica monetaria del vecchio governatore della banca centrale serba, il filo-europeistaDejan Soskic, era stata infatti giudicata “troppo restrittiva per il paese”.

 

Si è trattato quindi di un atto di tutela verso il paese stesso che però la stampa ha presentato come un problema per la stabilità bancaria europea e serba, che ha fatto drizzare le orecchie sia alla BCE sia al FMI. Qualcuno insomma, dalla periferia, ha osato sfidare sua maestà: la Banca Centrale Europea. 


Fonte: http://www.you-ng.it/news/politica-e-attualita/item/2878-la-serbia-verso-un-nuovo-sistema-bancario-fmi-sul-piede-di-guerra.html

L’attacco alla repubblica del Ecuador. Ecco il perchè di Londra.

Latinoamerica
Un articolo ECCEZIONALE, DA NON PERDERE!!

Investite un po del vostro tempo in una cosa che vi farà capire MOLTE ALTRE COSE!!
Ad esempio, come sia possibile che lo Stato che è stato indulgente con Augusto Pinochet (e non c’è necessità che vi racconti io di chi stiamo parlando) sia IRREPRENSIBILE nei confronti di una persona accusata di presunta “aggressione sessuale”.


Oggi parliamo di geo-politica e di libera informazione in rete.
Tutto ciò che sta accadendo oggi, tecnicamente (nel senso di “politicamente”) è iniziato il 12 dicembre del 2008. Secondo altri, invece, sarebbe iniziato nel settembre di quell’anno. Ma ci volevano almeno quattro anni prima che l’onda d’urto arrivasse in Europa e in Usa.

Forse è meglio cominciare dall’inizio per spiegare gli accadimenti.
Anzi, è meglio cominciare dalla fine.

Con qualche specifica domanda, che -è molto probabile- pochi in Europa si sono posti.

Mi riferisco qui alla questione di Jules Assange, wikileaks, e la Repubblica di Ecuador.
Perché il caso esplode, oggi?

Perché, Jules Assange, ha scelto un minuscolo, nonché pacifico, staterello del Sudamerica che conta poco o nulla?
Come mai la corona dell’impero britannico perde la testa e si fa prendere a schiaffi davanti al mondo intero da un certo signor Patino, ministro degli esteri ecuadoregno, per gli euro-atlantici un vero e proprio Signor Nessuno, il quale ha dato una risposta alla super elite planetaria (cioè il Foreign Office di Sua Maestà) tale per cui, cinque anni fa avrebbe prodotto soltanto omeriche risate di pena e disprezzo, mentre oggi li costringe ad abbozzare, ritrattare, scusarsi davanti al mondo intero?
Perché l’Ecuador? Perché, adesso?

Tutto era più che prevedibile, nonché scontato.

Intendiamoci: era scontato in tutto il continente americano, in Australia, Nuova Zelanda, Danimarca, paesi scandinavi. In Europa e a Washington pensavano che il mondo fosse lo stesso di dieci anni fa. Perché l’Europa -e soprattutto l’Italia- è al 100% eurocentrica, vive sotto un costante bombardamento mediatico semi-dittatoriale, non ha la minima idea di ciò che accade nel resto del mondo, ma (quel che più conta) pensa ancora come nel 1812, ovvero: “se crolla l’Europa crolla il mondo intero; se crolla l’euro e l’Europa si disintegra scompare la civiltà nel mondo” e ragiona ancora in termini coloniali. Ma il mondo non funziona più così. In Italia, ad esempio, nessuno è informato sulla zuffa (che sta già diventando rissa) tra il Brasile e l’Onu, malamente gestita da Christine Lagarde, la persona che presiede il Fondo Monetario Internazionale, e che ruota intorno all’applicazione base di un concetto formale, banale, quasi sciocco, ma che potrebbe avere ripercussioni psico-simboliche immense: l’Italia è stata ufficialmente retrocessa. Non è più l’ottava potenza al mondo, bensì la nona. E’ stata superata dal Brasile. Quindi al prossimo G8 l’Italia non verrà invitata, ma ci andrà il Brasile. Da cui la scelta di abolire il G8 trasformandolo in G10 standard. Si stanno scannando.

La prima notizia Vera (per chi vuole ricavare informazioni reali dal mondo reale) è questa: “L’Europa, con l’Inghilterra e Germania in testa, non possono (non vogliono) accettare il trionfo keynesiano del Sudamerica e la loro irruzione nel teatro della Storia come soggetti politici autonomi. Per loro vale il principio per cui “che se ne stiano a casa loro, non rompano, e ringrazino il cielo che li facciamo anche sopravvivere, come facciamo con gli africani. Altrimenti, da quelle parti, uno per uno faranno la fine di Gheddafi”. Il messaggio in sintesi è questo.

Dal Sudamerica negli ultimi quaranta giorni sono arrivati tre potentissimi messaggi in risposta: niente è stato pubblicizzato in Europa. Tanto meno l’ultimo (il più importante) in data 3 agosto, se non altro per il fatto che era in diretta televisiva dalla sede di New York del Fondo Monetario Internazionale. Nessuno lo ha trasmesso in Europa, ad esclusione del Regno di Danimarca. E così, preso atto che esiste una compattezza mediatica planetaria di censura, e avendo preso atto che se non se ne parla la televisione, non c’è in rete e non si trovano notizie su wikipedia, allora vuol dire che non esiste, il Sudamerica ha scelto il palcoscenico mediatico globale più intelligente in assoluto: il cuore della finanza oligarchica planetaria, la city di Londra.
E adesso veniamo ai fatti.

Jules Assange, il 15 giugno del 2012 capisce che per lui è finita. Si trova a Londra. Gli agenti inglesi l’arresteranno la settimana dopo, lo porteranno a Stoccolma, dove all’aereoporto non verrà prelevato dalle forze di polizia di Sua Maestà la regina di Svezia, bensì da due ufficiali della Cia, e un diplomatico statunitense, i quali avvalendosi di specifici accordi formali sanciti tra le due nazioni farà prevalere il “diritto di opzione militare in caso di conflitto bellico dichiarato” sostenendo che Jules Assange è “intervenuto attivamente” all’interno del conflitto Nato-Iraq mentre la guerra era in corso. Lo porteranno direttamente in Usa, nello Stato del Texas, dove verrà sottoposto a processo penale per attività terroristiche, chiedendo per lui l’applicazione della pena di morte sulla base dell’applicazione del Patriot Act Law. Si consulta con il suo gruppo, fanno la scelta giusta dopo tre giorni di vorticosi scambi di informazioni in tutto il pianeta. “vai all’ambasciata dell’Ecuador a piedi, con la metropolitana, stai lì”. Alle 9 del mattino del 19 giugno entra nell’ambasciata dell’Ecuador. Nessuna notizia, non lo sa nessuno. Il suo gruppo apre una trattativa con gli agenti inglesi a Londra, con gli svedesi a Stoccolma e con i diplomatici americani a Rio de Janeiro. Raggiungono un accordo: “evitiamo rischio di attentati e facciamo passare le olimpiadi, il 13 agosto se ne può andare in Sudamerica, facciamo tutto in silenzio, basta che non se ne parli”. I suoi accettano, ma allo stesso tempo non si fidano (giustamente) degli anglo-americani. Si danno da fare e mettono a segno due favolosi colpi. Il primo avviene il 3 agosto, il secondo il 4.

Il 3 agosto 2012, con un anticipo rispetto alla scadenza di 16 mesi, la presidente della Repubblica Argentina, Cristina Kirchner, si presenta alla sede di Manhattan del Fondo Monetario Internazionale accompagnata dal suo ministro dell’economia e dal ministro degli esteri ecuadoregno, Patino, in rappresentanza di “Alba” (acronimo che sta per Alianza Laburista Bolivariana America”) l’unione economica tra Ecuador, Colombia e Venezuela. In tale occasione, la Kirchner si fa fotografare e riprendere dalle televisioni con un gigantesco cartellone che mostra un assegno di 12 miliardi di euro intestato al Fondo Monetario Internazionale con scadenza 31 dicembre 2013, che il governo argentino ha versato poche ore prima. “Con questa tranche, la Repubblica Argentina ha dimostrato di essere solvibile, di essere una nazione responsabile, attendibile e affidabile per chiunque voglia investire i propri soldi. Nel 2003 andammo in default per 112 miliardi di dollari, ma ci rifiutammo di chiedere la cancellazione del debito: scegliemmo semplicemente la dichiarazione ufficiale di bancarotta e chiedemmo dieci anni di tempo per restituire i soldi a tutti, compresi gli interessi. Per dieci, lunghi anni, abbiamo vissuto nel limbo. Per dieci, lunghi anni, abbiamo protestato, contestato e combattuto contro le decisioni del Fondo Monetario Internazionale che voleva imporci misure restrittive di rigore economico sostenendo che fosse l’unica strada. Noi abbiamo seguito una strada diversa, opposta: quella del keynesismo basato sul bilancio sociale, sul benessere equo sostenibile e sugli investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione, investendo invece di tagliare. Abbiamo risolto i nostri problemi. Ci siamo ripresi. Non solo. Siamo oggi in grado di saldare l’ultima tranche con 16 mesi di anticipo. Le idee del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale in materia economica sono idee errate, sbagliate. Lo erano allora lo sono ancor di più oggi: Chi vuole operare, imprendere, creare lavoro e ricchezza, è benvenuto in Argentina: siamo una nazione che ha dimostrato di essere solvibile, quindi pretendiamo rispetto e fedeltà alle norme e alle regole, da parte di tutti, dato che abbiamo dimostrato, noi per primi, di rispettare i dispositivi del diritto internazionale……” ecc. Subito dopo (cioè 15 minuti dopo) la Kirchner ha presentato una denuncia formale contro la Gran Bretagna e gli Usa al WTO (World Trade Organization) la più importante associazione planetaria di scambi commerciali coinvolgendo il Fondo Monetario Internazionale grazie ai files messi a disposizione da Wikileaks, cioè Assange. L’Argentina ha saldato i debiti, ma adesso vuole i danni. Con gli interessi composti. “Volevano questo, bene, l’hanno ottenuto. Adesso che paghino”. E’ una lotta tra la Kirchner e la Lagarde. Le due Cristine duellano da un anno impietosamente. Grazie (o per colpa) di Assange, dato che il suo gruppo ha tutte le trascrizioni di diverse conversazioni in diverse cancellerie del globo, che coinvolgono gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, la Germania, il Vaticano, dove l’economia la fa da padrone: Osama Bin Laden è stato mandato in soffitta e sostituito da John Maynard Keynes, lui è diventato il nemico pubblico numero uno delle grandi potenze; in queste lunghe conversazioni si parla di come mettere in ginocchio le economie sudamericane, come portar via le loro risorse energetiche, come impedir loro di riprendersi e crescere, come fare per impedire ai loro governi di far passare i piani economici keynesiani applicando invece i dettami del Fondo Monetario Internazionale il cui unico scopo consiste nel praticare una politica neo-colonialista a vantaggio soprattutto di Spagna, Italia e Germania, con capitali inglesi. Gran parte dei file già resi pubblici su internet. Gran parte dei file, gentilmente offerti da Assange all’ambasciatore in Gran Bretagna dell’Ecuador, il quale -siamo sempre il 3 agosto a New York- ricorda chi rappresenta e che cosa ha fatto l’Ecuador, ovvero la prima nazione del continente americano, e unica nazione nel mondo occidentale dal 1948, ad aver applicato il concetto di “debito immorale” ovvero “il rifiuto politico e tecnico di saldare alla comunità internazionale i debiti consolidati dello Stato perché ottenuti dai precedenti governi attraverso la corruzione, la violazione dello Stato di Dirirtto, la violazione di norme costituzionali”. Il 12 dicembre del 2008, infatti, il neo presidente del governo dell’Ecuador Rafael Correa (pil intorno ai 50 miliardi di euro, pari a 30 volte di meno dell’Italia) dichiara ufficialmente in diretta televisiva in tutto il continente americano (l’Europa non ha mai trasmesso neppure un fotogramma e difficilmente si trova nella rete europea materiale visivo) di “aver deciso di cancellare il debito nazionale considerandolo immondo, perché immorale; hanno alterato la costituzione per opprimere il popolo raccontando il falso. Hanno fatto credere che ciò chè è Legge, cioè legittimo, è giusto. Non è così: da oggi in terra d’Ecuador vale il nuovo principio costituzionale per cui ciò che è giusto per la collettività allora diventa legittimo”. Cifra del debito: 11 miliardi di euro. Il Fondo Monetario Internazionale fa cancellare l’Ecuador dal nòvero delle nazioni civili: non avrà mai più aiuti di nessun genere da nessuno “Il paese va isolato” dichiara Dominique Strauss Kahn, allora segretario del Fondo Monetario.. Il paese è in ginocchio. Il giorno dopo, Hugo Chavez annuncia ufficialmente che darà il proprio contributo dando petrolio e gas gratis all’Ecuador per dieci anni. Quattro ore più tardi, il presidente Lula annuncia in televisione che darà gratis 100 tonnellate al giorno di grano, riso, soya e frutta per nutrire la popolazione, finchè la nazione non si sarà ripresa. La sera, l’Argentina annuncia che darà il 3% della propria produzione di carne bovina di prima scelta gratis all’Ecuador per garantire la quantità di proteine per la popolazione. Il mattino dopo, in Bolivia, Evo Morales annuncia di aver legalizzato la cocaina considerandola produzione nazionale e bene collettivo. Tassa i produttori di foglie di coca e offre all’Ecuador un prestito di 5 miliardi di euro a tasso zero restituibile in dieci anni in 120 rate. Due giorni dopo, l’Ecuador denuncia la United Fruit Company e la Del Monte & Associates per “schiavismo e crimini contro l’umanità”, nazionalizza l’industria agricola delle banane (l’Ecuador è il primo produttore al mondi di banane) e lancia un piano nazionale di investimento di agricoltura biologica ecologica pura. Dieci giorni dopo, i verdi bavaresi, i verdi dello Schleswig Holstein, in Italia la Conad, e in Danimarca la Haagen Daaz, si dichiarano disponibili a firmare subito dei contratti decennali di acquisto della produzione di banane attraverso regolari tratte finanziarie pagate in euro che possono essere scontate subito alla borsa delle merci di Chicago. Il 20 dicembre del 2008, facendosi carico della protesta della United Fruit Company, il presidente George Bush (già deposto ma in carica formale fino al 17 gennaio 2009) dichiara “nulla e criminale la decisione dell’Ecuador” annunciando la richiesta di espulsione del paese dall’Onu: “siamo pronti anche a una opzione militare per salvaguardare gli interessi statunitensi”. Il mattino dopo, il potente studio legale di New York Goldberg & Goldberg presenta una memoria difensiva sostenendo che c’è un precedente legale. Sei ore dopo, gli Usa si arrendono e impongono alla comunità internazionale l’accettazione e la legittimità del concetto di “debito immorale”. La United Fruit company viene provata come “multinazionale che pratica sistematicamente la corruzione politica” e condannata a pagare danni per 6 miliardi di euro. Da notare che il “precedente legale” (tuttora ignoto a gran parte degli europei) è datato 4 gennaio 2003 a firma George Bush. Eh già. E’ accaduto in Iraq, che in quel momento risultava “tecnicamente” possedimento americano in quanto occupato dai marines con governo provvisorio non ancora riconosciuto dall’Onu. Saddam Hussein aveva lasciato debiti per 250 miliardi di euro (di cui 40 miliardi di euro nei confronti dell’Italia grazie alle manovre di Taraq Aziz, vice di Hussein e uomo dell’opus dei fedele al vaticano) che gli Usa cancellano applicando il concetto di “debito immorale” e quindi aprendo la strada a un precedente storico recente. Gli avvocati newyorchesi dell’Ecuador offrono al governo americano una scelta: o accettano e stanno zitti oppure se si annulla la decisione dell’Ecuador allora si annulla anche quella dell’Iraq e quindi il tesoro Usa deve pagare subito i 250 miliardi di euro a tutti compresi gli interessi composti per quattro anni. Obama, non ancora insediato ma già eletto, impone a Bush di gettare la spugna. La solida parcella degli avvocati newyorchesi viene pagata dal governo brasiliano.

Nasce allora il Sudamerica moderno.

E cresce e si diffonde il mito di Rafael Correa, presidente eletto dell’Ecuador. Non un contadino indio come Morales, un sindacalista come Lula, un operaio degli altiforni come Chavez. Tutt’altra pasta. Proveniente da una famiglia dell’alta borghesia caraibica, è un intellettuale cattolico. Laureato in economia e pianificazione economica a Harvard, cattolico credente e molto osservante, si auto-definisce “cristiano-socialista come Gesù Cristo, sempre schierato dalla parte di chi ha bisogno e soffre”. Il suo primo atto ufficiale consiste nel congelare tutti i conti correnti dello Ior nella banche cattoliche di Quito e tale cifra viene dirottata in un programma di welfare sociale per i ceti più disagiati. Fa arrestare l’intera classe politica del precedente governo che viene sottoposta a regolare processo. Finiscono tutti in carcere, media di dieci anni a testa con il massimo rigore. Beni confiscati, proprietà nazionalizzate e ridistribuite in cooperative agricole ecologiche. Invia una lettera a papa Ratzinger dove si dichiara “sempre umile servo di Sua Illuminata Santità” dove chiede ufficialmente che il vaticano invii in Ecuador soltanto “religiosi dotati di profonda spiritualità e desiderosi di confortare i bisognosi evitando gli affaristi che finirebbero sotto il rigore della Legge degli uomini”.[Gli altri se ne possono comodamente andare affanculo n.d.r]

Tutto ciò lo si può raccontare oggi, grazie alla bella pensata del Foreign Office, andati nel pallone. In tutto il pianeta Terra, oggi, si parla di Rafael Correa, dell’Ecuador, del debito immorale, del nuovo Sudamerica che ha detto no al colonialismo e alla servitù alle multinazionali europee e statunitensi.
In Italia lo faccio io sperando di essere soltanto uno dei tanti.
Questo, per spiegare “perché l’Ecuador”.

E’ un chiaro segnale che il gruppo di Assange sta dando a chi vuol capire e comprendere che TINA è un Falso. Non è vero che non esiste alternativa. Per 400 anni, da quando gli europei scoprirono le banane ricche di potassio, gli ecuadoregni hanno vissuto nella povertà, nello sfruttamento, nell’indigenza, mentre per centinaia di anni un gruppo di efferati oligarchi si arricchiva alle loro spalle. Non è più così. E non lo sarà mai più. A meno che non finiscano per vincere Mitt Romney, Mario Draghi, Mario Monti, David Cameron e l’oligarchia finanziaria. L’esempio dell’Ecuador è vivo, può essere replicato in ogni nazione africana o asiatica del mondo.

Anche in Europa.
Per questo Jules Assange ha scelto l’Ecuador.
Ma non basta.

Il colpo decisivo al sistema viene dato da una notizia esplosiva resa pubblica (non a caso) il 4 agosto del 2012. “Jules Assange ha firmato il contratto di delega con il magistrato spagnolo Garzòn che ne rappresenta i diritti legali a tutti gli effetti e in ogni nazione del globo”.

Ma chi è Garzòn?

E’ il nemico pubblico numero uno della criminalità organizzata.
E’ il nemico pubblico numero uno dell’opus dei.
E’ il più feroce nemico di Silvio Berlusconi.
E’ in assoluto il nemico più pericoloso per il sistema bancario mondiale.

Magistrato spagnolo con 35 anni di attività ed esperienza alle spalle, responsabile della procura reale di Madrid, ha avuto tra le mani i più importanti processi spagnoli degli ultimi 25 anni. Esperto in “media & finanza” e soprattutto grande esperto in incroci azionari e finanziari, salì alla ribalta internazionale nel 1993 perché presentò all’interpol una denuncia contro Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri (chiedendone l’arresto) relativa a Telecinco, Pentafilm, Fininvest, reteitalia e Le cinq da cui veniva fuori che la Pentafilm (Berlusconi e Cecchi Gori soci, cioè Pd e PDL insieme) acquistava a 100 $ i diritti di un film alla Columbia Pictures che rivendeva a 500$ alla telecinco che li rivendeva a 1000$ a rete Italia che poi in ultima istanza vendeva a 2000$ alla Rai, in ben 142 casi tre volte: li ha venduti sia a Rai1 che a Ra2 che a Rai3. Lo stesso film. Cioè la Rai (ovvero noi) ha pagato i diritti di un film 20 volte il valore di mercato e l’ha acquistato tre volte, così tutti i partiti erano presenti alla pari. Quando si arrivò al nocciolo definitivo della faccenda, Berlusconi era presidente del consiglio, quindi Garzòn venne fermato dall’Unione Europea. Ottenne una mezza vittoria. Chiuse la telecinco e finirono in galera i manager spagnoli. Ma Berlusconi rientrò dalla finestra nel 2003 come Mediaset. Si riaprì la battaglia, Garzòn stava sempre lì. Nel 2006 pensava di avercela fatta ma il governo italiano di allora (Prodi & co.) aiutò Berlusconi a uscirne. Nel 2004 aprì un incartamento contro papa Woytila e contro il managament dello Ior in Spagna e in Argentina, in relazione al finanziamento e sostegno da parte del vaticano delle giunte militari di Pinochet e Videla in Sudamerica. Nel 2010 Garzòn si dimise andando in pensione ma aprì uno studio di diritto internazionale dedicato esclusivamente a “media & finanza” con sede all’Aja in Olanda. E’ il magistrato che è andato a mettere il naso negli affari più scottanti, in campo mediatico, dell’Europa, degli ultimi venti anni. In quanto legale ufficiale di Assange, il giudice Garzòn ha l’accesso ai 145.000 file ancora in possesso di Jules Assange che non sono stati resi pubblici. Ha già fatto sapere che il suo studio è pronto a denunciare diversi capi di stato occidentali al tribunale dei diritti civili con sede all’Aja. L’accusa sarà “crimini contro l’umanità, crimini contro la dignità della persona”.

La battaglia è dunque aperta.
E sarà decisiva soprattutto per il futuro della libertà in rete.
In Usa non fanno mistero del fatto che lo vogliono morto. Anche gli inglesi.

Ma hanno non pochi guai perché, nel frattempo, nonostante sia abbastanza paranoico (e ne ha ben donde) Assange ha provveduto a tirar su un gruppo planetario che si occupa di contro-informazione (vera non quella italiana). I suoi esponenti sono anonimi. Nessuno sa chi siano. Non hanno un sito identificato. Semplicemente immettono in rete dati, notizie, informazioni, eventi. Poi, chi vuole sapere sa dove cercare e chi vuole capire capisce.

Quando la temperatura si alza, va da sé, il tutto viene in superficie.
E allora si balla tutti.

In Sudamerica, oggi, la chiamano “British dance”.
Speriamo soltanto che non abbia seguiti dolorosi o sanguinosi.

Per questo Assange sta dentro l’ambasciata dell’Ecuador.
Per questo Garzòn lo difende.
Per questo, questa storia relativa al Sudamerica, va raccontata.
Per questo l’Impero Britannico ha perso la testa e lo vuole far fuori.

Perché Assange ha accesso a materiale di fonte diretta.

E il solo fatto di dirlo, e divulgarlo, scopre le carte a chi governa, e ricorda alla gente che siamo dentro una Guerra Invisibile Mediatica.
Non sanno come fare a fermare la diffusione di informazioni su ciò che accade nel mondo.
Finora gli è andata bene, rimbecillendo e addormentando l’umanità.

Ma nel caso ci si risvegliasse, per il potere sarebbero dolori davvero imbarazzanti.
Wikileaks non va letto come gossip.

Non lo è.
C’è gente che per immettere una informazione da un anonimo internet point a Canberra, Bogotà o Saint Tropez, rischia anche la pelle.

Questi anonimi meritano il nostro rispetto.
E ci ricordano anche che non potremo più dire, domani “ma noi non sapevamo”.
Chi vuole sapere, oggi, è ben servito. Basta cercare.

Se poi, con questo Sapere un internauta non ne fa nulla, è una sua scelta.
Tradotto vuol dire: finchè non mandiamo a casa l’immonda classe politica che mal ci rappresenta, le chiacchiere rimarranno a zero. Perché ormai sappiamo tutti come stanno le cose.

Altrimenti, non ci si può lamentare o sorprendersi che in Italia nessuno abbia mai parlato prima dell’Ecuador, di Rafael Correa, di ciò che accade in Sudamerica, dello scontro furibondo in atto tra la presidente argentina e brasiliana da una parte e Christine Lagarde e la Merkel dall’altra.

Perché stupirsi, quindi, che gli inglesi vogliano invadere un’ambasciata straniera?
Non era mai accaduto neppure nei momenti più bollenti della cosiddetta Guerra Fredda.
Come dicono in Sudamerica quando si chiede “ma che fanno in Europa, che succede lì?”

Ormai si risponde dovunque “In Europa dormono. Non sanno che la vita esiste”.

Fonte: sergiodicorimodiglianji.blogspot.it
Ago 14, 2012 - Bancocrazia, Economia, Truffe    Commenti disabilitati su Investimenti finanziari: Certificato Unicredit Bonus Plus 15,5% BancoPosta

Investimenti finanziari: Certificato Unicredit Bonus Plus 15,5% BancoPosta

Le trappole nascoste in alcuni prodotti finanziari strutturati delle Poste

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Molti di noi pensano alla Posta come il luogo dove comprare i buoni fruttiferi. Un investimento semplice che ci riporta forse ai nostri nonni. Negli ultimi anni però le cose sono cambiate. Spesso BancoPosta ha venduto prodotti strutturati in cui era complesso stabilire quale rendimento attendersi.

Qualche mese fa per esempio aveva venduto RBS Express 9% BancoPosta, ovvero un certificato – una specie di derivato – sull’indice azionario Eurostoxx 50. Se si era dotati di una certa pazienza e di un po’ di competenza si poteva riuscire a scaricare dal sito delle Poste la scheda prodotto di questo certificato, scoprendo alla fine che ci si poteva attendere un rendimento del 2,45 – lo scenario più probabile -, ma che era anche possibile un guadagno del 7,02% o una perdita del 18,1% – mentre con un BTp si può guadagnare facilmente il 4%.

E in questi giorni è tornata alla carica con un prodotto simile: il Certificato “Bonus Plus 15,5% BancoPosta” su Intesa Sanpaolo. Attribuisce in ogni caso un premio del 15,5% sul capitale investito, ma a scadenza restituirà quanto avete versato solo se l’azione sottostante – ovvero Intesa Sanpaolo – non avrà perso il 40% del suo valore. Se l’azione perdesse la metà del suo valore i sottoscrittori si troverebbero con metà del capitale.

Leggendo la scheda prodotto che si può scaricare dal sito delle Poste si può rilevare come il prodotto possa guadagnareil 12,26% su base annua ma possa perdere anche il 32,31% – ma si può perdere anche di più…

Fonte: http://contintasca.blogosfere.it

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